di Michele Fumagallo
da il manifesto del 19 dicembre 2009
Riprendere una tradizione musicale antica di secoli e ricostruire la storia di una razza particolare di musicisti di strada, un tempo conosciuti in tutto il mondo. E’ quanto accade a Viggiano, piccolo centro lucano diviso tra pozzi di petrolio e ricerca della propria cultura
Andare alla ricerca di una tradizione in gran parte perduta per capirne i valori più nascosti e magari per farli ritornare alla luce, come un viatico per il futuro; riprendere una tradizione musicale secolare, quella legata all’arpa e ai suoi riti e miti, che ha fatto la storia della Val d’Agri; spulciare tra studi recenti e meno recenti che si interrogano e offrono documenti eccezionali su di una storia di musicisti di strada, del tutto particolari, conosciuti in tutto il mondo per circa due secoli fino alla decadenza estrema che ormai data da circa cinquanta anni. Tutto questo ci porta a Viggiano, paese lucano della Val d’Agri, da alcuni anni centro dell’estrazione del petrolio, che ne ha modificato in parte vita e memorie senza però liberare il territorio dalle illusioni e delusioni della scoperta dell’oro nero.
L’arpa e i suoi retroterra antichi sono un po’ l’altra faccia del petrolio: tanto quest’ultima è povera di partecipazione popolare (anzi, per la verità, tutto avviene sulla testa del popolo), quanto quella è stata invece una storia di autonomia imprenditoriale, sociale e religiosa. Affrontiamo questo problema con due musiciste che stanno lottando per riportare in auge lo studio dell’arpa viggianese, e in compagnia di alcuni studi recenti davvero eccezionali, senza dimenticare il ruolo avuto da una studiosa come Giulia Rosa Celeste. «L’arpa perduta» è il titolo del volume che ha sintetizzato il valore di questa storia musicale e sociale unica, e da due anni è il saggio più interessante sull’argomento che accompagna le perlustrazioni e gli studi sull’arpa. Ne è autore Enzo Vinicio Alliegro, oggi docente universitario, ma in passato testimone, studioso e impegnato in loco. Alliegro è anche, insieme a Gaetano Caiazza, il curatore della ristampa anastatica di un giornale eccezionale, «Il ribelle», periodico quindicinale socialista che è uscito dal 1907 al 1919, una lettura veramente entusiasmante e vero laboratorio antropologico. «Noi ci proponiamo di pronunciare sempre ed ovunque – si legge in effetti nell’editoriale del primo numero del giornale – il caso lo richieda la nostra parola franca ed ardita, contro ogni attitudine autoritaria, contro tutte le consorterie e le camorre, alla difesa di tutti gli oppressi, alla denuncia di tutti gli sfruttamenti, allo svergognamento di tutte le viltà, alla fustigazione di tutte le debolezze, allo sventramento di tutte le mistificazioni che si vogliono far credere al popolo e di cooperare sempre e sinceramente per la causa proletaria, che nella nostra misera provincia non ha basi solide e radici profonde, perché non vi è stato ancora un concorso vero e proficuo di forze organizzate onde concepirla e delinearla». «Da questo punto di vista – prosegue l’editoriale – la nostra rivolta sarà specialmente contro la malafede religiosa che anch’essa molto da vicino contribuisce, se non all’immiserimento diretto delle masse, certo alla loro persistente ignoranza ed alla loro sommessa servilità».
L’arpa viggianese è stata la tradizione musicale più importante e originale di un paese che per più di due secoli ha fatto parlare di sé negli angoli più sperduti del mondo, dall’Europa all’America (nord e sud), dall’Australia al Sudafrica. Alliegro così sintetizza la sua visione del musicante girovago: «Figura di scandalo, eterodossa, quella del musicante si pose quale figura liminare posta tra ambiti rurali di appartenenza e spazi urbani di destinazione; tra il riconoscimento sociale e la negazione culturale. Figura liminare che ben si presta a far venire alla ribalta il limite delle procedure e delle modalità adottate dall’Occidente in un particolare momento del suo sviluppo per pensare e rappresentare l’altro da sé». E i musicanti girovaghi viggianesi, con l’arpa al collo (originale strumento ricavato rigorosamente dal pero selvatico), hanno subìto, nel loro peregrinare, le stesse umiliazioni e persecuzioni di gruppi zingari o rom, pur essendo nient’affatto emarginati socialmente (si contavano tra loro ottimi artigiani e avevano nel mondo pregiati punti di riferimento). Ma c’erano alcuni nei insopportabili per le classi dirigenti: uno era la musica che era di per sé «antiborghese» nel modo di porsi e suonare a dispetto della stupida sacralità con cui veniva vissuto dai borghesi uno strumento come l’arpa; l’altro era il loro impegno sociale, dapprima nelle Società di Mutuo Soccorso poi nelle prime organizzazioni socialiste; dulcis in fundo erano protestanti in un paese dal forte culto cattolico della «madonna nera» (la tradizione religiosa più diffusa a Viaggiano e in Lucania). Agli inizi del Novecento, a Viggiano, nacquero alcune iniziative d’avanguardia che connotarono fortemente il nucleo di musicisti: «Il ribelle», valoroso giornale socialista di battaglia, e il club femminista. Tutti fattori che, se da una parte esplicitavano la consistenza culturale dei musicisti (alcuni, nell’emigrazione, sarebbero diventati grandi interpreti, come Albert Salvi, prima arpa della Chicago Orchestra), dall’altra scatenarono contro i musicisti viggianesi le ire della parte opposta maggioritaria nel paese, in Lucania e altrove. Il resto lo fece l’emigrazione nelle sue tappe storiche. Andarono via e quella tradizione andò via con loro. Restò la memoria che, come si sa, può fare brutti (cioè bellissimi) scherzi: il recupero identitario legato all’arpa è in ripresa nel paese. Racconta Giuliana De Donno, musicista e arpista che ha aperto una scuola ad hoc a Viaggiano: «Anni fa ero interessata a una ricerca di musica popolare che mi ha portato a lavorare sulla musica celtica. Poi ho scoperto, sia come musicista che come lucana, amaramente per la verità, che la tradizione dell’arpa di Viaggiano si era quasi del tutto estinta, erano rimasti soltanto alcuni vecchi che suonavano, tra cui Luigi Milano di Moliterno, un paese vicino a Viaggiano. Fu allora che mi interrogai sulla questione e venni alla conclusione che se fosse andata ancora per un periodo così, la tradizione si sarebbe persa per sempre. Naturalmente la scoperta più affascinante per me, quando mi sono inoltrata nello studio storico dell’arpa viggianese, è stata la lunghezza storica della tradizione per ben tre secoli. E non solo: mi colpì anche la trasversalità del suono dell’arpa che accomunava sia il mondo pastorale che quello colto, e la scoperta che entrambi suonavano sia repertori colti che popolari».
Nell’emigrazione, poi, molti di quei musicisti di strada raggiungeranno vette nei conservatori e nei teatri di tutto il mondo, e saranno conosciuti come portatori di un suono particolare e di uno strumento originale nella sua fattura e nel modo di suonarlo. Per lunghi anni “viggianese” è stato sinonimo di musicista e arpista in molte parti d’Italia e del mondo. E poeti, come il Parzanese, si sono cimentati in filastrocche sui musicisti girovaghi («Ho l’arpa al collo, / son viggianese, / tutta la terra è il mio paese») Continua Giuliana De Donno: «Un ruolo nella riscoperta di quest’arpa l’ha avuto Giuliarosa Celeste, studiosa di cui non si rimarcherà mai abbastanza il valore. Ma è sintomatico il mio tragitto, a dimostrazione di un rapporto sbagliato tra passato e presente che è in senso lato all’origine della crisi attuale che viviamo. Io sono passata dallo studio dell’arpa classica a quella irlandese e poi a quella sudamericana. Soltanto in ultimo ho scoperto che c’era un’arpa nella cultura della mia regione». Giuliana De Donno sta cercando di ricostituire i repertori che si suonavano allora, il tutto accompagnato da una metodologia di apprendimento che è anche una novità per una tradizione che si è basata spesso sulla trasmissione orale. Dall’anno scorso ha fondato una scuola di musica a Viaggiano che ha già dato risultati sorprendenti. Già, perchè una delle caratteristiche dell’insegnamento di De Donno è proprio quella di ripartire dalla realtà storica della tradizione, cioè dalla quella orale. Il fallimento delle riproposizioni passate era invece proprio inscritto nella logica opposta di partire dallo studio teorico e poi passare al suono, mentre invece è proprio il tragitto inverso, dall’armonia alle note, il segreto dell’insegnamento di Giuliana. Un lavoro che desta interesse anche perchè è l’unica scuola in Italia che agisce così; che pesca nell’intimità artistica dei ragazzi per farla venire alla luce ben prima di uno studio teorico pur importante. Il revival dell’arpa folk che ha caratterizzato la storia di questo paese non è facile. Ostacoli se ne trovano a bizzeffe, a partire da una cultura che sulle macerie del passato ha costruito un presente del tutto inconsistente, esposto a un “analfabetismo” sociale che è la causa della passività con cui vengono vissuti gli avvenimenti. Il tutto poi avviene nel deserto della crisi italiana generale e delle culture “alternative” del tutto scomparse.
Attraversare però Viggiano, con i suoi mille e passa metri di altezza, dentro i suoi vicoli, è un tuffo nella memoria: non solo per il monumento in bronzo all’arpista, che magari è più facile e meno commovente, ma per le effigie di arpe e violini che si trovano ancora oggi nei bassorilievi posti sopra alcuni portoni delle case del centro storico. Naturalmente non è che il comune brilli per celerità nell’approntare e realizzare progetti all’altezza del compito che una tale tradizione meriterebbe. Ma sarà il caso di riparlarne, magari alla luce dell’uso delle royalties del petrolio. E mentre lasciamo Giuliana, che sta lavorando a nuovi Cd sulla presenza dell’arpa nel sud d’Italia (dopo aver già distribuito un importante excursus sul mondo dell’arpa classica), è Daniela Ippolito, musicista ventiseienne, a intrattenerci sul suo percorso di riscoperta dell’arpa viggianese. «La mia passione per l’arpa locale – racconta – è nata dalla scoperta di una tradizione che ignoravo del tutto. Finito il conservatorio a Matera, dopo cinque anni di chitarra, ho scelto l’arpa semplicemente perché mi aveva affascinato la sua storia. Sia leggendo gli studi sull’argomento che ascoltando i Cd su quella musica, mi sono sentita piccina, come se avessi detto tra me e me: ma come questi suonavano nell’emigrazione con tanti sacrifici e io non ci riesco? E’ nato così un duo con un mio amico, poi il vecchio suonatore Luigi Milano mi ha insegnato i trucchi di questo strumento. Da lì è iniziata una storia musicale nuova per me. La storia dei musicisti di Viaggiano mi ha insegnato che il popolo si può riprendere. Ho capito che in quella tradizione c’è il tracciato dell’autonomia. Pensa che erano delle persone che dovevano sopravvivere, che hanno subito tutti i traumi degli emigrati. Tutto questo mi ha affascinato, quasi come una rivincita sulla logica del disfarsi delle cose ritenute vecchie, che ci ha rovinato in passato. Pensa che erano tesori di casa e nessuno ne sapeva niente». Daniela, in attesa di laurearsi in lettere moderne, adesso fa concerti d’arpa in giro per i comuni lucani e ovunque la chiamino. Un segno dei tempi, e un percorso che a nessuno deve venire in mente di bloccare. In passato è stata una mancanza grave aver lasciato morire una tradizione così nobile e forte, così ricca di implicazioni sociali. Ma si è giustificato il tutto col progresso (malato) del passato. Oggi sarebbe semplicemente un delitto senza scusanti spegnere l’entusiasmo che si va riaccendendo sull’arpa viggianese, l’altra faccia del petrolio di questo paese della Val d’Agri.