Baccanali greci, sincretismo cristiano e i vantaggi del progresso nella pizzica delle tarantolate
di Miguel Gotor
da Il Sole 24 ore del 27 febbraio 2011
L’Italia non sarebbe uno stivale senza il tacco della Puglia, la regione più lunga e pianeggiante della penisola, tutta protesa verso Oriente. E non sarebbe la stessa senza lo sperone mistico del Gargano, l’angolo estremo di un triangolo di religiosità paneuropea che unisce Santiago di Compostela a Saint Michel in Normandia, l’Atlantico al Mediterraneo. La Puglia è stata considerata per millenni un finis terrae, la periferia di un continente da sfruttare grazie al grano delle pianure e all’olio dei suoi ulivi, centro di emigrazione laboriosa che ha contaminato della sua fatica l’Italia, l’Europa e il mondo intero.
Una terra “matria”, con salde strutture familiari e un solido matriarcato, in cui la donna è stata da sempre protagonista perché l’uomo era costretto a emigrare per lunghi anni o durante la stagione della transumanza. Una caratteristica di questa regione è anche quella di avere conservato più a lungo che altrove alcune manifestazioni folkloriche in cui elementi magici e religiosi hanno convissuto insieme. Ciò è avvenuto perché la Puglia è luogo di frontiera e di continuo scambio tra terra e mare, tra agricoltori, pastori e pescatori, ma anche campo d’invasione e d’accoglienza, di scontri e d’incontri che hanno prodotto un meticciato culturale fondato su una stratificazione complessa di civiltà: si è giunti sino ai giorni nostri partendo dalle antiche popolazioni indoeuropee degli Apuli e passando dalle colonizzazioni greche, le conquiste romane, i domini bizantini, longobardi, saraceni, normanni, svevi, angioini, aragonesi, spagnoli, austriaci e francesi.
Ciò ha fatto di questa terra uno straordinario laboratorio etno-antropologico che rappresenta in scala una pregnante metafora del destino italiano. Era il 1961, l’unità nazionale festeggiava il suo secolo di vita, quando Ernesto De Martino diede alle stampe La terra del rimorso e raccontò la storia di un’antichissima tradizione pugliese, quella dei tarantolati.
Per l’illustre antropologo la terra del rimorso era la Puglia, ove alcuni individui, prevalentemente di sesso femminile, si ritenevano morsi e ri-morsi dalla tarantola e riuscivano a liberarsi dal veleno solo grazie a un complesso rituale esorcistico a base di musica e danze (la pizzica). Di solito il morso del ragno era immaginario e costituiva il pretesto per curare disturbi di origine psicosomatica che nel Seicento si sarebbe chiamato «umor malinconico», nell’Ottocento «esaurimento nervoso» e nel Novecento «depressione».
In altri casi l’avvelenamento era effettivo perché la tarantola, nascosta nei covoni di fieno, colpiva soprattutto al tempo della mietitura, e in particolare le donne che si recavano ai campi per aiutare gli uomini, provocando stati di tremore e persino convulsioni. La comunità smetteva di lavorare e attendeva alla “tarantata” suonando incessantemente i tamburelli e danzando a ritmo vorticoso per liberarla dall’avvelenamento. Secondo l’interpretazione di De Martino il morso della taranta costituiva la rottura di un ordine prestabilito, che il rito contribuiva a ripristinare configurandosi come una forma di protezione istituzionalizzata, il segno di un “male culturale”. Il rito aveva una componente terapeutica prevalente, ma anche una dimensione erotico-sessuale (ricordata in molti canti pugliesi) in cui entravano in gioco le coppie ordine/conflitto, salute/malattia all’interno di un contesto agricolo segnato dalla povertà.
L’origine di questa tradizione è incerta: secondo De Martino risalirebbe al Medioevo e alle esperienze dei crociati costretti effettivamente ad affrontare le punture di animali velenosi. Per altri studiosi si dovrebbe risalire alla diffusione, del movimento dei Baccanali nel II secolo a. C. e alle cerimonie della possessione dionisiaca. Nonostante la mancanza di documenti, è sicuro che siamo in presenza di resistenze culturali risalenti a uno scenario mitico-rituale comune all’area del Mediterraneo e dell’Asia minore che ha interessato anche la Puglia in tempi remoti trovando un contesto economico-sociale favorevole all’attecchimento.
All’interno di questa complessa e discussa stratificazione antropologica si inserisce l’assimilazione della tradizione dei tarantolati operata dal cristianesimo grazie al culto di san Paolo e documentata a partire dal XVI secolo. La Chiesa, consapevole dell’origine pre-cristiana del rito, scelse la strada del sincretismo, convogliando i tarantati dagli spazi privati alla cappella di San Paolo a Galatina e così disciplinando la cerimonia attraverso la sua calendarizzazione il 29 giugno. Essa è stata progressivamente trasformata in una richiesta di grazia al santo, ma ha conservato la dimensione musicale e danzante nel percorso di guarigione che avrebbe un’origine autonoma.
La scelta di San Paolo non sorprende in quanto negli Atti degli Apostoli si racconta che egli, quando si trovava a Malta, fu morsicato da una vipera (non da un ragno), ma riuscì a sopravvivere. Da questa tradizione evangelica si diffusero particolarmente in Puglia e in Sicilia i cosiddetti “sanpaolari”, i quali erano in grado di curare il morso del serpente con un’acqua miracolosa o con la terra di Malta, ma non con l’esorcismo coreutico-musicale che dovrebbe costituire la forma di una più antica matrice culturale di origine dionisiaca. Siamo dunque in presenza di un rito composito dove sacro e profano, elementi ecclesiastici e pagani, hanno continuato a vivere insieme grazie all’impegno assimilatorio del cristianesimo come religione nella storia.
Sempre nel 1961 il poeta Salvatore Quasimodo, nel commentare un documentario sui tarantolati pugliesi a cui aveva collaborato anche De Martino, ricordava come «questa è la terra di Puglia e del Salento spaccata dal sole e dalla solitudine dove l’uomo cammina sui lentischi e sulla creta. Scricchiola e si corrode ogni pietra da secoli . È terra di veleni animali e vegetali: qui esce nella calura il ragno della follia e dell’assenza, si insinua nel sangue di corpi delicati che conoscono solo il lavoro arido della terra, distruttore della minima pace del giorno. Qui cresce tra le spighe di grano e le foglie del tabacco la superstizione, il terrore, l’ansia di una stregoneria possibile, domestica. I geni pagani della casa sembrano resistere ad una profonda metamorfosi tentata da una civiltà durata millenni». Il suo lirismo populista descriveva una Puglia che allora c’era, ma che oggi non esiste più.
Ancora nel 1974, nel giorno della festa dei santi Pietro e Paolo, nella cappella di Galatina si presentò una dozzina di “tarantati” che si erano dimezzati rispetto ai tempi dell’indagine di De Martino e che oggi sono scomparsi. La Puglia da terra agricola è diventata negli ultimi cinquant’anni una società prevalentemente post-industriale e terziaria: le migliori condizioni di vita, la mutazione delle strutture familiari, il cambiamento della condizione della donna hanno rotto il telaio magico-rituale che funzionava a pieno regime dentro una comunità con tempi, ritmi e stili di vita contadina.
Insomma, se sono scomparse le lucciole di Pier Paolo Pasolini è pur vero che gli insetticidi hanno cambiato i nostri ecosistemi agricoli facendo sparire anche le tarantole, e per nostra fortuna. Oggi il tarantismo è svanito come le grandi storie di frustrazione economica di cui è stato millenario argine terapeutico e di quell’esperienza è rimasto solo “La Notte della Taranta” che ha spostato il fuoco dell’attenzione sul terreno dei consumi artistici e turistici in nome della riscoperta della tradizione tradita.
Dei tarantolati dunque non restano che la musica e un sentimento di sincretismo, contaminazione e trasformazione continui che sono il sale di ogni storia possibile. La morale della favola è che gli ultimi cinquant’anni di storia italiana hanno costituito un sicuro vantaggio per questi popoli costituendo – e vogliamo rispolverare un termine caduto troppo superficialmente in disuso – una fonte di progresso materiale, civile e morale. Il mito della tarantola ha resistito fin quando quelle terre sono state avvolte in una miseria senza speranza e riscatto, costruite intorno al latifondo e coltivate da braccia che si vendevano a giornata per un tozzo di pane. Oggi i nipoti di quei contadini tarantolati dalla fatica ballano per lo più immemori al ritmo della pizzica sulle note raffinate di Ludovico Einaudi, mescolati ai giovani di tutta Europa che li possono raggiungere con voli low cost grazie ai modernissimi aeroporti di Brindisi e di Bari. Il ragno maligno è stato sconfitto, ci saranno di sicuro mille altri veleni, vecchi e nuovi, da neutralizzare, ma è bene ricordare che di fare l’Italia ne è valsa la pena.