di Vincenzo Santoro, 20 ottobre 2012
Potenza dei social network: La festa, la farina, la forca, notevolissimo documentario del 1980 girato nella Grecìa Salentina, recentemente ritrasmesso da RaiStoria, dalla tv è stato subito caricato su youtube, e si è velocemente diffuso su facebook tramite catene di condivisione fra appassionati. Un esempio emblematico di come le tecnologia, applicata correttamente, possa contribuire alla libera diffusione della cultura e addirittura essere applicata al recupero della memoria.
Il documentario in questione presenta tantissimi motivi di interesse (i canti dell’osteria, il contadino che ragiona sul presente citando Masse e potere di Pietro Ingrao, Cici Cafaro che suona l’armonica, il Canzoniere Grecanico Salentino che mette in scena una rappresentazione della Cecilia in una bellissima campagna, Rina Durante che spiega il suo lavoro di recupero della cultura popolare e il rapporto di questo con la politica, il finale grandioso, con un gruppo di contadini che canta “a coru” in grico) ma vorrei qui soffermarmi sull’uomo che, nella prima parte del documentario, ci parla dei problemi delle campagne, puzzeddhe, tabacco, friselle e dei piselli (nani!) del suo paese, Zollino: Giovanni Pellegrino. Si tratta di uno dei protagonisti fondamentali – e certamente misconosciuto, forse a causa del suo essere irregolare, libero e soprattutto “a-istituzionale” – del lavoro collettivo e di lunga durata di “rivalutazione” del Salento e della sua storia culturale, che oggi ha fatto diventare questo estremo frammento d’Italia una terra grandemente attrattiva e quasi “di moda”.
Singolare figura di intellettuale “di base” e instancabile ed estroso operatore culturale, negli anni in cui la cultura tradizionale progressivamente si consumava per effetto dei processi di “modernizzazione” economica e sociale che riguardarono il nostro Paese, mise in essere, negli anni ’70 e ’80, insieme ad altri suoi amici del luogo, una serie di azioni finalizzate a contrastare l’impoverimento culturale e la perdita della “memoria” delle piccole comunità salentine, che avrebbero lasciato il segno e che in molti casi posero le basi per il “rinascimento” degli anni ’90. In particolare, Pellegrino lavorò molto alla “re-invenzione” delle feste popolari, che stavano perdendo gradualmente le specificità e le funzioni che le avevano caratterizzate per secoli all’interno della cultura contadina.
Un primo intervento molto importante riguardò la creazione, nel 1978, della Festa de lu focu, che di fatto era il recupero delle tradizionali focare di Sant’Antonio, che si tenevano il 17 gennaio, e che stavano progressivamente scomparendo. Pellegrino ebbe l’idea di anticiparle al 28 dicembre, quando i tanti emigranti tornavano in paese per passare il Natale in famiglia, con un grande falò attorno a cui si ritrovava l’intera comunità. Oggi questa “Festa” – che si tiene in località Lumardu, un luogo di grande suggestione poco fuori dal paese – per la sua collocazione invernale, quindi lontana dal turismo di massa, è una delle più belle e affascinanti del Salento.
L’operazione più visionaria e lungimirante di Pellegrino però fu condotta quattro anni dopo, nel 1982, sull’evento popolare più importante e celebrato del leccese, la grande festa di San Rocco a Torrepaduli. Come è noto, in occasione di questo evento religioso si produceva anche un grande raduno di suonatori e danzatori tradizionali che, nella notte del 15 agosto, davano vita alle “ronde”, in cui, al suono ossessivo dei tamburelli, si svolgevano le sfide di “scherma”, duello danzato in cui due uomini simulano un combattimento con i coltelli. Alla fine degli anni ’70, anche questa festa entra in crisi, sempre meno suonatori e danzatori si ritrovano davanti al santuario, e i livelli di specializzazione coreutica calano sensibilmente. Come ci ricorda l‘etnocoreologo Pino Gala:
Molti giovani venivano tollerati all’interno della rota anche se scimmiottavano gestualità improprie di combattimento. Ricordo che a seguito dei successi cinematografici della seconda metà degli anni ’70 di film farciti di arti marziali orientali, alcuni giovani duellavano nella pizzica schermata con precarie e ridicole imitazioni estemporanee di kung-fu e di karate, tanto che anziani maestri di scherma si erano talmente stufati delle nuove forme parodistiche e caricaturali del ballo, che avevano smesso di parteciparvi o di recarsi addirittura alla festa(1).
Per contrastare questa situazione di degrado un gruppo di operatori culturali locali, capitanati da Giovanni Pellegrino, per cercare di rilanciare la festa notturna, nel 1982 organizza Ritorno a San Rocco, un’iniziativa di “mobilitazione culturale” il cui obiettivo è proprio quello di tutelare le “specificità” della festa e di rivitalizzarla, a partire dal far ritornare in uso il tamburello tradizionale, sempre meno utilizzato dai suonatori locali (cosa che oggi, quando i suonatori di questo strumento sono forse decine di migliaia, ci può apparire incredibile, ma allora la situazione era questa, tanto che viene lanciato sulla stampa un appello per non far scomparire questo “simbolo di una civiltà”!). Così Pellegrino descrive per sommi capi i contenuti del progetto e le modalità di attuazione:
ci sono energie-festa represse e il nostro lavoro consiste nel fare in modo che esse si liberino. In questo senso ci siamo mossi in questi mesi, andando a cercare i tamburellisti e i ballerini dispersi in tutto il Salento e ridiscutendo con loro il San Rocco dei balli e dei suoni spontanei; le motivazioni vecchie e nuove che li animano; i blocchi che li reprimono. Abbiamo cercato anche le istituzioni culturali: Diego Carpitella, prof. di Etnomusicologia dell’Università di Roma; Nando Taviani, prof. di Storia del Teatro dell’Università di Lecce, che ci sono a fianco con la loro qualificata esperienza (2).
In primo luogo viene effettuata un’indagine per scoprire i tamburellisti rimasti in azione nella provincia, che poi vengono coinvolti in tre feste private (a Ugento, Cutrofiano e Sannicola), con l’obiettivo di fargli tornare la “passione” della musica popolare, che si stava col tempo perdendo. Vengono fatti costruire 25 tamburelli nuovi, che devono servire a sostituire quelli in dotazione dei suonatori, che in molti casi sono quasi inservibili. Tutta questa energia viene poi convogliata sulla Festa del tamburello, organizzata a Cutrofiano insieme all’amministrazione comunale, a cui viene invitato anche Diego Carpitella. In una intervista rilasciata al Quotidiano di Lecce, che segue questa serie di iniziative con diversi articoli che vengono pubblicati in quei giorni di agosto del 1982, Carpitella
affronta certe problematiche, all’epoca forse embrionali, poi divenute rilevanti: la conservazione dei repertori musicali e dei saperi artigianali tradizionali, l’apprendimento delle tecniche esecutive, il ruolo dei giovani musicisti e l’azione ancora legati a processi tradizionali vivi, la valenza simbolica di alcuni strumenti musicali (Maurizio Agamennone)(3).
In particolare, dopo aver espresso soddisfazione per la piena riuscita dell’evento (“ha richiamato tanta gente ed abbiamo assistito per quattro ore e più a continue danze, accompagnate da ritmi scatenati nelle vie e nello spazio antistante la scuola(4)”), Carpitella esprime alcune proposte di intervento culturale che, alla luce degli sviluppi futuri, appaiono di straordinaria lungimiranza:
Il problema della tradizione musicale in questo caso è strettamente collegato alla costruzione di tamburelli, bisogna fare un censimento di coloro che li costruiscono e che li suonano. Purtroppo qui ho appreso che i costruttori stanno sparendo, pare ve ne siano soltanto quattro, dei quali due ormai vecchi, ma è più grave il fatto della esigua motivazione. L’unica occasione pubblica nel Salento è rimasta la festa di San Rocco a Torrepaduli, nelle altre feste il tamburello è negletto, vengono venduti solo strumenti-giocattolo per i bambini, che non servono certo ad accompagnare le più belle danze popolari.
(…) Proviamo a collegare alle mostre di artigianato e di strumenti musicali dei corsi di breve durata (…) organizzati dagli enti locali, dove si possa imparare a suonare e a danzare. Infatti, per quanto concerne la continuità, spezzata da varie cause, proprio quella parte di tradizione legata ai riti ed alle cerimonie ancora esistenti fino a vent’anni fa, è inutile nasconderlo, è finita. Mentre è rimasta questa continuità musicale che può diventare apprendimento organizzato della tradizione orale e del patrimonio della cultura contadina(5).
Il grande maestro dell’etnomusicologia italiana riesce a cogliere nella sua esperienza salentina, in maniera quasi profetica, una continuità musicale data dalla persistenza delle pratiche musicali e coreutiche e la possibilità di costruire, al di fuori dei contesti rituali tradizionali, ormai irrimediabilmente perduti, un percorso di “apprendimento organizzato della tradizione orale e del patrimonio della cultura contadina”. Negli anni seguenti, con ogni probabilità senza la coscienza di un’ispirazione così autorevole, in molti nel Salento seguiranno il “programma” tracciato, con effetti esplosivi.
La catena di iniziative organizzate nella prima metà di agosto confluisce poi nella “partecipazione attiva” alla festa notturna di san Rocco a Torrepaduli:
S. Rocco non è più quello di una volta, ma non è affatto finito. La lunga notte tra il 15 e il 16 agosto è ancora un riferimento notevole dell’arte di festa popolare contadina. Certamente non manca chi arriccia il naso davanti alla gestualità dirompente e al limite della brutalità di un ballo come la “pizzica-pizzica” schermata, come se fosse possibile e giusto, nei momenti di festa, reprimere l’uso del corpo alla classe di lavoratori più sfruttata fisicamente durante tutto l’anno. Noi non abbiamo niente da dire, perché alla festa non ci siamo mai stati. Sappiamo solo che quest’anno ci andremo nella speranza di passare bene alcune ore e di vedere qualcosa di antico che sia valido e bello. Ma una cosa possiamo promettere: calendario alla mano, ci sarà una fantastica luna piena d’estate, forse la più bella di tutto il Salento (Giovanni Pellegrino)(6).
Carpitella assiste alla festa, e gira alcune riprese che serviranno a realizzare un documentario che poi – con il titolo La danza della scherma a Torrepaduli – utilizzerà per i suoi corsi all’Università di Roma “La Sapienza”. Ad aiutarlo, un giovane allievo, che due decenni dopo, diventerà uno dei protagonisti dell’esplosione della pizzica, Ambrogio Sparagna:
Per me è stato il primo vero incontro con il Salento, un incontro che ha segnato tutta la mia vita. Io avevo sempre sentito parlare di queste zone da Carpitella. Nei corsi che lui teneva all’università aveva parlato a noi studenti della pizzica, del sistema culturale del tarantismo. Però l’essere catapultato in una situazione come quella di Torrepaduli agli inizi degli anni ‘80, per me giovane laureato è stata una forma di emancipazione, quasi un rito di iniziazione. In quel periodo mi occupavo con Carpitella della documentazione video e per la prima volta cominciavamo a girare con delle macchine VHS in maniera per così dire sistematica. Carpitella, comunque non mi aveva spiegato bene a cosa andavamo incontro. Siamo arrivati il 15 di agosto, con un caldo micidiale. Ricordo che riuscì ad entrare in una “ronda” con questa grossa telecamera, cercando di non ostacolare il movimento degli attori della ronda, tentando di gettare uno sguardo specifico non tanto sulla festa in generale, che era comunque un universo straordinario e affascinante, ricco di odori, colori, suoni e sapori, ma entrando nello specifico della pratica della danza. E poi la pratica tecnica degli strumenti. Nella ronda c’erano numerosi suonatori di tamburello, di armonica a bocca e c’erano soprattutto dei giovani ballerini zingari, che facevano da sé il campo. (…) Chiaramente la festa rifletteva già alcuni elementi di compromesso. Rispetto a quello che era l’ambiente conosciuto da Carpitella negli anni ’50, c’era un cambiamento in atto, ma c’erano anche tanti aspetti che testimoniavano una tradizione ancora viva. Gli elementi significativi di questa pratica coreutica e musicale erano affidati al ruolo degli anziani e dei giovani. Questo aspetto mi colpì molto. Notai che mancavano le fasce generazionali intermedie. C’erano persone di sessanta, settant’anni, ma erano del tutto assenti i quarantenni. Chiesi spiegazioni a qualcuno dei partecipanti e mi risposero che i quarantenni mancavano perché erano quasi tutti emigrati. (…) Carpitella era molto incuriosito anche sul piano artistico, eravamo ancora agli inizi del riutilizzo della danza sul piano poetico-creativo. E ricordo che mi colpì molto l’aspetto che non erano studiosi nel senso stretto del termine ed erano operatori e giovani intellettuali del luogo che tentavano non solo di salvare le testimonianze più importanti della cultura di tradizione orale, ma anche un riutilizzo dinamico di alcuni elementi della tradizione.(7)
1. G. M. Gala, Il dissidio nel corteggiamento e il sodalizio nella sfida: per una rilettura antropologica del complesso sistema dell’etnocoreutica italiana, in P. Fumarola-E. Imbriani, Danze di corteggiamento e di sfida nel mondo globalizzato, Besa, Nardò 2006, p. 98.
2. G. Pellegrino, La festa: un fatto di cultura, “Pensionante dei Saraceni”. Foglio di poesia e letteratura diretto da Antonio Verri, numero speciale a cura di Giovanni Pellegrino, Lecce, Luglio-agosto 1982.
3. M. Agamennone, La musica tradizionale del Salento, in M. Agamennone (a cura di), Musiche tradizionali del Salento. Le registrazioni di Diego Carpitella ed Ernesto de Martino (1959, 1960), Squilibri, Roma 2005, pp 7-82 e, in part., 24.
4. M. Damato, “Il tamburello, simbolo vivo di una civiltà. Non lasciatelo scomparire così”. Un appello dell’etnomusicologo Diego Carpitella, Quotidiano di Lecce, 15/16 agosto 1982, pp. 12-13.
5. Ivi.
6. G. Pellegrino, La lunga notte di Torre Paduli a Ruffano. Tamburelli e grandi balli sotto la luna di San Rocco, Il Quotidiano di Lecce, 15 agosto 1982.