A proposito della recensione del libro di Giovanni Pizza Il tarantismo oggi. Antropologia, politica, cultura (da poco edito da Carocci), pubblicata sul quotidiano Il manifesto del 2 giugno (si può leggere qui: http://ilmanifesto.info/il-ragno-del-salento/ ), a firma di Claudio Corvino, vorrei provare a segnalare brevemente alcuni punti a mio avviso problematici, che possono avere una valenza più generale, in quanto rivelatori di un approccio abbastanza diffuso.
Lo scritto in questione riguarda un libro importante, su cui cui mi riprometto di tornare più approfonditamente in seguito, che, in una sua parte fondamentale, analizza il modo con cui nel Salento, negli ultimi anni, il fenomeno del tarantismo sia stato oggetto di processo di “patrimonializzazione”, cioè, in estrema sintesi, sia stato trasformato in “bene culturale” identitario da valorizzare, fino a diventare addirittura un “attrattore culturale” da utilizzare a fini turistici. Per fare questa operazione, secondo Pizza (che non è comunque il primo a compiere un’analisi del genere) è stato necessario depurare il fenomeno dal suo portato di sofferenza – negando in questo modo anche l’interpretazione che ne aveva dato Ernesto de Martino nel celebre saggio La terra del rimorso – e trasformandolo in simbolo di “rinascita”. Nell’analizzare alcuni autori che, in diversi libri (che però occorrerebbe anche capire in quanti hanno realmente letto), avrebbero contribuito a questa sorta di “inversione della tradizione”, Pizza descrive – in pagine raffinate e penetranti – anche la complessità e la contraddittorietà di tale processo: alle posizioni “revisioniste” (mi si perdoni il termine, che sarà certamente usato contro di me), si sono infatti a più riprese contrapposte altre più [//]”ortodosse”, che si richiamano più o meno fedelmente all’interpretazione contenuta nel capolavoro demartiniano, in una dialettica mai risolta (e forse mai risolvibile), che giustamente viene segnalata come una delle ricchezze del contesto salentino. Addirittura, aggiungo io, questo “conflitto” si ritrova non solo nei libri, ma anche in musica, con canzoni che inneggiano al tarantismo come “rinascita”, e canzoni che invece segnalano la mercificazione del Salento “fintu de ragni e de tarante”.
E qui siamo al primo problema che vorrei segnalare. Nella recensione, come in molti discorsi che ho sentito fare anche di recente (e anche in contesti sorprendenti), questa complessità viene in gran parte persa, per cui si rappresenta il Salento come un luogo dove l’interpretazione “revisionista” è monoliticamente vincente (facendo peraltro capire che i protagonisti sono tutti “intellettuali locali”, mentre un ruolo fondamentale lo hanno svolto studiosi non “locali”, che hanno concretamente operato sul campo per lunghi periodi: uno per tutti Georges Lapassade, le cui controverse teorizzazioni sul “tarantamuffin” e sul “neotarantismo” hanno trovato nel tempo ampio e ripetuto spazio proprio sulle pagine del manifesto). Con l'”inversione” del tarantismo dunque sarebbe stata compiuta nei fatto una gigantesca operazione di falsificazione e travisamento (non trovo termini più adeguati), per cui, secondo Corvino:
proprio negli anni in cui il Salento veniva «rapinato» della sua cultura etnografica, dei suoi olivi secolari, negli anni in cui i suoi particolarissimi muretti a secco difensivi e i suoi trulli cadevano o venivano dismessi per mancanza di una capace manodopera, le amministrazioni locali «inventavano» un altro aracnide che sarebbe riuscito a liberarle dal male attraverso lo sviluppo economico, turistico e culturale. È in quegli anni che nascerà la Notte della Taranta, il noto festival musicale estivo che coinvolge Melpignano e una ragnatela di altri centri salentini.
Visto che ci siamo, mi permetto sommessamente di far notare che, anche a voler seguire questo ragionamento, non sono certo state le “amministrazioni locali” a “inventare un altro aracnide”, e che i muretti a secco e i trulli crollavano anche prima (anzi, forse la ritrovata attenzione degli ultimi anni sul Salento “culturale” ha consentito di salvarne qualcuno). Inoltre, non mi pare che La Notte della taranta, nella comunicazione e nella costruzione concreta degli eventi spettacolari, abbia aderito in maniera così determinante al “fronte revisionista” (forse anche, devo dire, per la vigilanza severa esercitata su questo – e non solo su questo – dal caro Sergio Torsello, che aveva ben presente tali problematiche). Peraltro non deve essere un caso che anche un libro “critico” come quello di Pizza sia stato pubblicato “con il contributo della Fondazione” melpignanese.
Però la cosa più importante che mi preme sottolineare a proposito della recensione (che come ho già detto, mi pare rappresenti significativamente un sentire comune di certi ambienti) è un’altra: come l’analisi giustamente critica di un processo culturale possa scivolare facilmente in un giudizio sommario e liquidatorio. Vorrei ribadire che tutto questo non c’è nel libro di Pizza, che invece contiene un’analisi rigorosa, problematica e stimolante della situazione salentina (per quanto forse un po’ parziale, limitandosi soprattutto al dibattito su alcuni libri e considerando in misura molto minore lo specifico delle dinamiche musicali, coreutiche e dello spettacolo, che sono il cuore di questa storia).
E qui veniamo all’altro aspetto che vorrei mettere in evidenza, collegato un po’ al primo: il fatto che il “movimento della pizzica” (espressione che a suo tempo coniammo sempre con Sergio Torsello) è spesso interpretato soltanto dal punto di vista del problematico “revival” del tarantismo. Anche qui, forse qualche maggiore approfondimento sulle dinamiche reali che si sono sviluppate sul territorio non guasterebbe. Per il movimento salentino, il rapporto con la “memoria” del tarantismo è un aspetto certamente importante, ma assolutamente non esaustivo. Si tratta come è noto (o dovrebbe esserlo) di un composito movimento di organizzatori di cultura, musicisti, ballerini, amministratori locali più o meno sensibili, editori, scrittori di saggi e di romanzi (tra l’altro anche in questo caso non solo “locali” ma diffusi su una rete molto più vasta) e così via, che, in un periodo lungo, ha recuperato e reinterpretato, in modo certamente spregiudicato e controverso, ma mi pare anche con spunti positivi, alcuni elementi di una tradizione culturale che stava scomparendo (per chi volesse approfondire mi permetto di segnalare il mio Il ritorno della taranta in cui questa complessa vicenda culturale e sociale, che ha coinvolto diverse generazioni a partire dagli anni ’60, è ricostruita attraverso la viva voce di molti dei suoi protagonisti. info qui: http://lnx.vincenzosantoro.it/2015/01/28/il-ritorno-della-taranta/ ). Anche dal punto di vista strettamente musicale, occorre ricordare che la musica del tarantismo è solo una piccola percentuale dei repertori dei gruppi attuali. E mi pare che non sia chiara nemmeno un’altra cosa: che la danza al centro di tutto non è quella del tarantismo, ma la “pizzica” ludica, quella delle feste, che si balla in due. Quella sì simbolo di “gioiosa catarsi”!
Perché allora, ci si potrebbe domandare, questa sorta di “ossessione” ritorna di continuo, a volte inserita in analisi sommarie e semplificatorie (e a volte sconcertanti, come ad esempio quando si lascia intendere che chi balla ai concerti di fatto si “percepirebbe” come un continuatore del rituale tarantistico)? Le risposte potrebbero essere molteplici: sicuramente il tarantismo ancora oggi è un fenomeno che esercita un grande fascino, e che in qualche modo continua a costituire, come è stato per secoli, una sorta di lente deformante con cui guardare i “pugliesi”. Ed è giusto anche dire che, a livello locale su queste ambivalenze si è giocato molto e in maniera spesso spregiudicata, nella comunicazione e non solo.
Un’altra risposta invece a mio avviso ha a che fare più direttamente con l’eredità di Ernesto de Martino nello specifico dell’accademia italiana, per cui per molti studiosi che provengono da lì la necessità di confrontarsi con l’opera del grande “fondatore” a volte sembra avere la prevalenza rispetto alla realtà che si cerca di rappresentare e interpretare. D’altra parte, anche in questo c’è poco di nuovo: in quanti, dopo la pubblicazione della Terra del rimorso, hanno fatto rotta verso il Salento “sulla tracce di Ernesto de Martino“? E quante volte l’ansia di misurarsi con l’opera del maestro ha fatto compiere anche operazioni discutibili rispetto ai “portatori” locali (vedi l’inquietante incontro di Annabella Rossi con la tarantata “Maria di Nardò” del 1977, su cui giustamente si sofferma l’autore del libro nel capitolo “Il rifiuto di Maria”)?
D’altra parte il prezioso libro di Giovanni Pizza analizza con l’attenzione dovuta anche tali dinamiche, e questa è una delle tante ragioni di interesse per un’opera stimolante e veramente ricca (che contiene, fra l’altro, una importante sezione, più densa e teorica, dedicata al rapporto fra Ernesto de Martino e il pensiero di Antonio Gramsci ). Ma, come ho detto all’inizio, conto di ritornarci presto con maggiore approfondimento.
Segnalo qui anche un’altra recensione del libro apparsa in grande evidenza sul quotidiano La Repubblica, scritta dall’antropologo Marino Niola, che, in una valutazione complessiva certamenta più “positiva” delle dinamiche salentine rispetto a quella pubblicata dal manifesto, non è immune da alcuni degli aspetti problematici di cui ho parlato in precedenza (a partire dal singolarissimo titolo: Tarantismo, la riscossa delle donne ragno): http://lnx.vincenzosantoro.it/2015/03/21/tarantismo-la-riscossa-delle-donne-ragno/