Maurizio Agamennone, nel libro Musica e tradizione orale nel Salento. Le registrazioni di Alan Lomax e Diego Carpitella (agosto 1954), recentemente pubblicato da Squilibri, nel raccontare la singolare storia del canto Rirollallà (ne parlo nella mia recensione, che si può leggere qui ), fa riferimento ad un documentario radio dal titolo Soglia messapica, realizzato per il terzo canale radio della Rai da Roberto Costa(1), e mandato in onda il 6 maggio 1954, in cui una registrazione del canto – una sorta di pizzica-pizzica per due voci, accompagnata da un bizzarro strumento a percussione, probabilmente un coperchio di una pentola – venne trasmesso per la prima volta, presentato come musica usata nella terapia del tarantismo.
Grazie ad un suggerimento del caro amico Massimiliano Morabito, sono riuscito a rintracciare sul sito della Rai questa trasmissione (si può ascoltare cliccando qui).
Si tratta di un documento veramente straordinario, per varie ragioni, a partire dal fatto che nei tempi in cui fu realizzato molte delle tradizioni in esso evocate e raccontate erano ancora in funzione. Il suo autore, Roberto Costa, percorre il Salento, «lembo estremo della nostra terra, proiettato fra l’Adriatico e lo Ionio», ricercando in particolare, «attraverso canti, poesie e testimonianze di storici dei luoghi», i caratteri di un “germe ellenico” che si esprimerebbe in molte manifestazioni della vita e dell’arte, a cominciare dal dialetto, «infiorato di grecismi», e della lingua grica, che ancora si conservava (e con più sofferenza si conserva ancora oggi) in alcuni paesi della zona centrale della provincia di Lecce.
Il viaggio comincia con la barocca Lecce e con Gallipoli (la “Kalè polis” dei greci) e le loro bellezze architettoniche, descritte con linguaggio solenne da alcuni eruditi locali (Francesco Babudri, Nicola Vacca ed Ettore Vernole), per arrivare a Calimera, cittadina dove si conserva la lingua grica (vengono lette alcune poesie e fatti sentire alcuni canti dalle voci dei bambini delle scuole); poi a Martano, dove sono attive «le ultime prefiche, qui dette “rèpute”». Il tema del lamento funebre della Grecìa viene particolarmente approfondito, facendo ascoltare anche alcune registrazioni tratte dalla viva voce delle ultime tre anziane cantatrici rimaste (Immacolata De Padovanis, Vita Paola Perrino e Medica Chiriatti), descrivendo il rito e indagando i testi dei lamenti, che recano traccia dell’origine precristiana e pagana di queste pratiche (in particolare per la presenza del mitico “Caronte”, traghettatore delle anime). Dopo il racconto di una leggenda che si racconta a Cannole, riguardante un tesoro nascosto sotto ai canneti che circondavano il paese, si passa a Otranto, cittadina descritta come silenziosa e semideserta (!), dove è ancora forte la memoria dei tragici fatti della conquista turca del 1480, episodio che viene ripercorso dalla guida Vittorio De Vito. Giunto a questo punto il Costa si sofferma su un’altra antica credenza salentina, il tarantismo, richiamando anche un testimone oculare, il professor Italo Paterno, che racconta quello che avviene ogni anno in giugno a Galatina. Riportiamo per intero questa parte del documentario:
L’estate, quando il sole brucia la penisola salentina, un nemico è in agguato: la tarantola. La puntura di questo ragno causa profonda malinconia interrotta da momenti di sovraeccitazione nervosa. Cosicché il popolo ha riunito sotto il nome di “tarantolismo” anche l'”isterismo” e altre malattie. Tutti questi mali vengono curati con un ballo che non è la tarantella, ma la “tarantana”. A Galatina, in una cappella dedicata a San Paolo, accorrono le donne – in maggioranza son le donne le ammalate – per chiedere la grazia al Santo e per ballare. Il professor Italo Paterno ha visto le donne tarantate: «È uno spettacolo che è insieme disgustevole ed emozionante, pietoso ed interessante. Lasci da parte le luminarie, le bande musicali ed i mille venditori di noccioline americane, e si avvicini ad una chiesetta di pochi metri quadrati di superficie, dove si danno convegno le tarantolate dei paesi viciniori, per chiedere ai Santi patroni Pietro e Paolo la grazie di essere liberate dal malessere che le affligge. Vada dalla parte di dietro, dove vedrà un piccolo pozzo, con poca acqua, ma in compenso con tante bisce, ed un uomo, tutto preso dall’importante compito di distribuire ai parenti delle tarantolate piccole dosi di quel liquido nerastro che è taumaturgico. Vedrà la polizia davanti alla porta della chiesa, e sentirà le grida, gli strepiti, le imprecazioni e le preghiere di quelle moderne ‘erinni’ che, prese da vero furore collettivo, si arrampicano sugli altari, salgono sulle statue, si rotolano per terra, oppure escono carpon carponi all’aperto, ed iniziano una danza monotona, uguale, estenuante, finché non cadono a terra esauste e sono ricondotte in chiesa dai parenti». Da Lecce a Leuca, da Tricase a Gallipoli, da Galatina ad Otranto, il tarantolismo viene curato facendo danzare l’ammalata a questo ritmo.
Il “ritmo” a cui si riferisce Costa è quello di Rirollallà, che viene fatta ascoltare in sottofondo, indicata dunque come musica usata nella “terapia”(2).
Lasciato il rituale della tarantola, il giornalista risale idealmente la costa adriatica, arrivando a Roca. Qui passa la parola a un personaggio di grande interesse, Giuseppe Palumbo, fotografo e studioso di tradizioni, che ci ha lasciato un importantissimo archivio di fotografie, negli ultimi anni giustamente valorizzato (3). Nel documentario, Palumbo racconta della «città morta» di Roca, di antica origine, ma di cui rimangono solo rovine e una piccola chiesa dedicata alla Madonna, dove, durante il mese di maggio, «vanno in pellegrinaggio le popolazioni del Salento». La cronaca della sua distruzione da parte dei Turchi viene evocata da una rappresentazione sacra, la “Tragedia di Roca”, interpretata – «sullo sfondo del più drammatico scenario che si possa immaginare» – dalle giovani fanciulle dei paesi limitrofi, di cui vengono fatte ascoltare alcune parti cantate e recitate, registrate “sul campo”. La Tragedia si conclude con il canto in grico chiamato Aremu Rindineddha-mu, tradotto in italiano in alcune parti.
Soglia messapica infine termina a Santa Maria de Finibus Terrae, limite estremo del Salento e dell’Italia, dove, mentre in sottofondo si sente il rumore delle onde che sbattono sugli scogli, viene enfaticamente declamata una poesia grica dedicata al mare: «E Tàlassa, oria e tàlassa» («il mare, bello il mare»).
1. Roberto Costa (Gravellona Toce, Novara, 1920 – Milano 1985), giornalista, «espressione di una tendenza innovatrice» della Rai, che si concretizzò nella sperimentazione di documentari di forte tagli sociale che tendevano a riportare le voci e le testimonianze in prima persona dei protagonisti. Cfr: Maurizio Agamennone, Musica e tradizione orale nel Salento. Le registrazioni di Alan Lomax e Diego Carpitella (agosto 1954), Squilibri 2017, nota 1) alla pagina 201. Il libro dedica una lunga sezione al programma e alla singolare storia della canzone Rirollalà, alle pp. 188-200. Secondo Agamennone, è possibile che proprio a partire dai materiali di Costa, che molto probabilmente conoscevano, Alan Lomax e Diego Carpitella abbiano «cominciato a progettare più precisamente “dove”, “come” e “che cosa” cercare durante la loro imminente rilevazione salentina», avvenuta nell’agosto del 1954.
2. proprio al giugno del 1954 risalgono le prime fotografie che testimoniano i drammatici avvenimenti che si svolgevano nella cappella di San Paolo a Galatina, dove i tarantati e le tarantate, nei giorni della festa del Santo (28-29 giugno), si ritrovano per chiedere la grazia. L’intero ampio reportage, opera di una giovanissima fotografa, Chiara Samugheo, originariamente pubblicato sul numero di gennaio 1955 di Cinema Nuovo, importante rivista del Neorealismo italiano, è stato recentemente ripubblicato dall’editore Les Flâneurs di Bari nel volume Chiara Samugheo. Un’amazzone della fotografia. Una mia recensione del volume, con approfondimenti sul tema e la riproduzione di alcune parti della rivista, si può leggere qui
3. è in corso in queste settimane una mostra a lui dedicata presso il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma, dal titolo: Visioni del Sud. Giuseppe Palumbo, il fotografo in bicicletta. Salento 1907/1959