di Eraldo Martucci, dal Nuovo Quotidiano di Puglia del 17 maggio 2019
La novità più dirompente sulla scena della musica popolare a cavallo tra la fine del secolo scorso e gli inizi del 2000 è stata, per usare le parole dello storico e antropologo Antonio Fanelli, «l’enorme successo mediatico della Notte della Taranta, a seguito della complessa vicenda del rilancio della musica popolare del Salento, trainata dalla reinvenzione della ballo della pizzica».
Un quadro storico che Vincenzo Santoro, impegnato da anni nella riflessione e nell’organizzazione di iniziative ed eventi sulle musiche e sulle culture popolari del Mezzogiorno, aveva ben ricostruito 10 anni fa nel saggio Il ritorno della taranta. Storia della musica popolare salentina, Squilibri editore.
Riflessioni ora aggiornate ed allargate verso altri orizzonti che lo studioso salentino pubblica nel prezioso volume Rito e passione. Conversazioni intorno alla musica popolare salentina, ItinerArti edizioni, al cui interno ci sono anche le interviste ad alcuni suoi protagonisti: Brizio Montinaro, Giovanni Pellegrino, Maurizio Nocera, Luigi Lezzi, Donatello Pisanello, Franco Tommasi, Roberto Raheli, Edoardo Winspeare, Gino Di Mitri, Sergio Torsello, Mauro Durante, Antonio Castrignanò, Maristella Martella.
Santoro, cosa è accaduto in questi dieci anni?
Il libro precedente era una ricostruzione che partiva da quello che secondo me è stato l’inizio del “rinascimento” musicale salentino, la fine degli anni ’60, cercando di dare uno sfondo storico a quello che accadeva in quel periodo, sottolineando come alcune dinamiche che hanno prodotto quel movimento provenissero da azioni realizzate negli anni ’70. In questi due lustri l’elemento di promozione del territorio si è rafforzato in maniera ancora più potente, e tutto questo rappresenta un grosso successo. A testimoniarlo non sono solo i dati collegati alle presenza di festival ed alle tantissime persone che li seguono sia nel Salento che in giro per l’Italia e addirittura nel mondo, ma anche, e lo ricordo nel volume, dai romanzi e dai saggi che escono, e dai dibattiti fra gli studiosi, che guardano a questo attivismo salentino come un esempio importante di processo di valorizzazione di uno specifico patrimonio culturale ed immateriale.
Lei però sottolinea come in questo rilancio siano venuti meno i legami con la ricerca documentaria, mentre contemporaneamente è aumentato la forza “istituzionale” del movimento…
Mi sembra che il processo di istituzionalizzazione abbia accentuato la rottura fra gli elementi più visibili, come appunto la Notte della Taranta, e quello che era il movimento culturale di base che si è protratto fino agli anni ’90. Una dialettica fra le base e le istituzioni, che è stato uno degli aspetti vincenti ed originali della nostra esperienza, e che ora si sta smarrendo. L’intervento economico e di sostegno a suo tempo fu fondamentale, nei vari modi in cui le istituzioni lo hanno fatto, e questa analisi rientra nel libro. Penso a Puglia Sounds, Apulia Film Fund, ad esempio, “macchine” molto efficaci di promozione del mondo culturale in generale ed in particolare a quello legato alla musica tradizionale. Ma ad un certo punto questo proficuo scambio si è interrotto, ed in questo momento tutto è molto “festivalizzato”.
In che senso?
Il rapporto con la tradizione è stato di rottura sin dalla prima edizione, addirittura rivendicato, nel segno della contaminazione. Il che andava benissimo anche per l’ambizione culturale sottostante che faceva scegliere personaggi comunque internazionali e famosi, ma che avevano un profilo alto rispetto a questa tipologia. L’impostazione data negli ultimi anni è invece molto televisiva, orientata verso una dimensione pop-rock. D’altra parte, un evento che si ripete con una formula tutto sommato simile da ormai due decenni, e con un pubblico dalle aspettative abbastanza rigide – nel senso che occorre per forza far ballare per una buona parte dell’esibizione – non è facile da riprogrammare ogni anno, considerando anche le difficoltà produttive. Il problema fondamentale è che la Fondazione è stata creata non per gestire il Festival, che per 12 anni è stato organizzato senza il suo apporto, ma per fare un progetto culturale alto, come d’altronde è scritto nello statuto. E nel testo mi soffermo a lungo su quanto sia stata complicata l’approvazione di quest’ultimo. E quando qualcuno del comitato scientifico ha tentato di gettare le basi per un progetto di più ampio respiro, non ha sortito alcun effetto. Non è esente da colpe neanche l’Università, al di là di qualche singola e lodevole iniziativa. In questo senso l’esempio della Sardegna è schiacciante nei nostri confronti.