Il tema della riduzione dei divari nella partecipazione e nell’offerta culturale dovrebbe essere un obiettivo prioritario delle politiche pubbliche da affrontare in maniera coordinata fra tutti gli attori e le istituzioni operanti nel settore, con misure forti e significative. L’esperienza del “bando periferie”
Di Vincenzo Santoro, da LETTURE LENTE – rubrica mensile di approfondimento di Agenzia Cult, 6 marzo 2023 (articolo originale qui)
In un Paese come l’Italia, dove persistono fortissimi divari nella partecipazione culturale, l’abolizione delle competenze culturali delle Province, conseguenza della cosiddetta “riforma Delrio”, ha reso ancora più problematica la possibilità di intervenire con efficaci misure correttive, come argomentato in un altro contributo di questo approfondimento tematico. L’istituzione delle Città Metropolitane, che in qualche sporadico caso avrebbero dovuto sostituirsi agli enti Provincia, non sembra essere in grado di rispondere a questa sfida nemmeno nei territori che governano, come in qualche modo ha dimostrato anche la prima attuazione del cosiddetto “bando periferie” del MiC.
Senza interventi specifici dunque il tema delle disuguaglianze nell’accesso alla cultura, e in questo caso particolare alle attività di spettacolo dal vivo, rischia non solo di restare eluso ma perfino di inasprirsi ulteriormente, producendo diversi effetti negativi (per esempio accentuando le dinamiche di spopolamento dei piccoli centri “poveri” di offerta culturale) in controtendenza rispetto a tutte le indicazioni degli organismi internazionali (a partire dall’Agenda 2030 dell’Onu).
Il contributo che segue propone una riflessione sull’argomento, a partire dall’attuazione concreta del “bando periferie” (su cui per un’analisi empirica si rimanda a un ulteriore contributo di questo speciale).
UNA PARTECIPAZIONE CULTURALE DIFFERENZIATA
L’attuazione del “bando periferie”, promosso, sostenuto e realizzato grazie all’accordo tra il MiC e le 14 città metropolitane, con la collaborazione dell’ANCI, rappresenta un’utile occasione per riportare la questione nevralgica degli enormi divari che in tema di “partecipazione culturale” si registrano nel Paese al centro delle politiche da adottare nel campo dello spettacolo dal vivo – e più in generale della cultura. I dati sono noti: se per il 2020 il rapporto Istat “Tempo libero e partecipazione culturale” ha rilevato che il 29,8% della popolazione di età superiore ai 6 anni ha partecipato a qualche forma di intrattenimento o spettacolo fuori casa (come andare al cinema, a teatro o a un concerto, visitare musei o mostre) negli ultimi dodici mesi precedenti l’intervista, registrando così una diminuzione di 5,3 punti percentuali rispetto al 2019 (35,1%), i residenti nel Centro-Nord restano i più attivi in termini di partecipazione culturale e si distinguono per i più bassi tassi di astensione complessiva. Occorre inoltre notare che nei Comuni delle aree metropolitane si concentrano i più alti tassi di partecipazione ad eventi di spettacolo, con divari significativi rispetto ai piccoli centri.
Ma è il dato relativo alla “non partecipazione culturale” a risultare particolarmente elevato e allarmante in termini assoluti e relativi: nelle regioni del Sud, nel 2019, – per ricorrere a stime precedenti agli effetti delle politiche di contenimento antipandemiche – è pari al 28,9% (dato stabile rispetto al 2018), a fronte del 14,3% dichiarato dai residenti nelle regioni del Nord-est. C’è da aggiungere che la non partecipazione totale resta particolarmente elevata tra coloro che risiedono nei Comuni con meno di 2 mila abitanti (24,1%). E anche rispetto alla spesa per consumi ricreativi e culturali, il Mezzogiorno e le Isole si collocano ampiamente al di sotto della media.
Da quanto detto, e da quanto testimoniano le esperienze di ciò che si muove sul territorio, in un quadro complessivo che denuncia livelli critici di partecipazione culturale, risultano essere profonde le sperequazioni in un Paese già fortemente disomogeneo. Disparità che amplificano le conseguenze negative su qualità della vita e opportunità per chi vive nelle zone più a rischio. A fronte di questa disomogeneità, è necessario che le politiche pubbliche operino al fine di contrastare i fattori di esclusione: chi abita nel Sud, in un paese dell’Italia interna oppure in periferia, ha minori possibilità di partecipare ad attività culturali rispetto al resto del Paese. Nel campo dello spettacolo dal vivo, credo che si possa sostenere che la sperequazione dipenda anche da una più ridotta presenza (numerica e qualitativa) di strutture (teatri, auditorium eccetera) e occasioni culturali (rassegne, festival eccetera), tanto quanto il divario tra Comuni centrali e corone metropolitane riguarda anche i servizi e le infrastrutture: la presenza dei servizi sul territorio è una delle condizioni discriminanti per assicurare l’inclusione sociale e il riequilibrio territoriale e la prossimità dei presidi e degli eventi culturali è un fattore cruciale per favorire l’accesso dei cittadini, nonché per valorizzare il patrimonio culturale materiale e immateriale, riconnettendo il tessuto urbano e sociale del Paese.
Altrimenti, è destinata a crescere la vulnerabilità derivante dalla sperequazione imputabile alla mancanza di politiche mirate, tanto quanto all’inadeguatezza delle azioni ordinarie (ad esempio la distribuzione dei fondi FUS, ma anche l’allocazione di risorse derivate dalla recente estensione delle agevolazioni fiscali alle erogazioni liberali dell’Art Bonus) destinate in gran parte a strutture già operative e consolidate.
Una corretta lettura delle dinamiche centro-periferia dimostra dunque quanto queste rinviino ad un paradigma che alimenta differenziazione sociale e culturale, replicato nella tensione all’interno delle stesse aree metropolitane, come ha dimostrato proprio il “bando periferie” nell’allocazione delle risorse, seppure nel quadro di un progetto culturale di ampiezza finora inedita in termini di coinvolgimento delle periferie urbane.
LA PRIMA APPLICAZIONE DEL “BANDO PERIFERIE”
D’altro canto, la prima esperienza di applicazione ha confermato la debolezza istituzionale delle Città metropolitane – così come ridisegnate dalla cd “riforma Delrio” – e, in mancanza strutturale di una politica di significativo rafforzamento, una loro sostanziale inadeguatezza ad affrontare in maniera strutturale i temi della “redistribuzione” dell’offerta culturale e della riduzione dei divari in tutto il territorio su cui operano. Come già evidenziato in un altro contributo di questo approfondimento, negli statuti di tali Enti territoriali il riferimento alle “attività culturali” è debole quando non del tutto inesistente, e da questo deriva la mancanza di strutture e competenze tecniche – e risorse – in grado di affrontare questi temi. Anche per simili ragioni si è scelto di affidare l’implementazione del “bando periferie” al Comune capoluogo che però, in mancanza di accordi specifici, non può ovviamente orientare strutturalmente le proprie attività ad altri Comuni: alla fine lo ha fatto in parte solo il Comune di Bologna, che con la sua Città metropolitana ha già delle forme di collaborazione avviate nel campo della cultura, nonché notevoli convergenze politico-istituzionali. Occorre peraltro fare notare che lo stesso concetto di “periferia” mal si adatta a realtà molto diversificate come le Città metropolitane, in cui, a parte i Comuni capoluogo più o meno popolosi ed estesi (ma con situazioni estremamente differenziate, si pensi soltanto a Roma e Venezia), convivono altri Comuni di “medie” dimensioni e una miriade (in alcuni casi centinaia) di piccoli Comuni, a volte distantissimi – non solo in termini logistici – dal Comune capoluogo. Realtà dunque complesse e policentriche, con più centri e più “periferie”, che avrebbero bisogno di politiche calibrate e non estemporanee (che ad esempio riguardino non solo le attività ma la stessa presenza di presidi culturali).
L’azione su cui stiamo concentrando la nostra attenzione rappresenta comunque un primo importante investimento, i cui effetti andranno analizzati con cura anche in vista degli sviluppi futuri, su un tema, quello della riduzione dei divari nella partecipazione e nell’offerta culturale, che dovrebbe essere un obiettivo prioritario delle politiche pubbliche – come finora non è accaduto – da affrontare in maniera coordinata fra tutti gli attori e le istituzioni operanti nel settore, con misure forti e significative, che dovrebbero comprendere anche una riflessione su “chi fa cosa” e quindi sulle competenze istituzionali delle Città Metropolitane in questo settore. In attesa che (forse) qualche novità normativa possa venire dall’attuazione del cd “Codice dello Spettacolo” e che qualche iniziativa più incisiva possa definirsi nel nuovo ciclo di programmazione delle risorse comunitarie, per ora si coglie qua e là qualche segnale positivo, in particolare – oltre ovviamente all’iniziativa di cui stiamo discutendo – riguardo all’attenzione data ai piccoli Comuni rispetto ad alcune norme di settore (anche nell’ultimo DM riguardante le modalità di accesso al FUS, che nei criteri di selezione delle domande assegna un maggiore punteggio ai progetti realizzati nei piccoli centri), mentre desta sconcerto la totale mancanza di interventi rivolti alla “cittadinanza culturale” nel PNRR, dove tutto pare concentrato sul tema della “valorizzazione” a fini turistici.