Il tarantismo acquatico

stampa-antica-amorino-meyer-eau60di Vincenzo Santoro*

Nelle fonti riguardanti il fenomeno del tarantismo, in particolare fra il Salento settentrionale e il territorio limitrofo a Taranto, emerge un aspetto singolare ma di grande interesse, che peraltro rimane manifesto fino a pochi decenni fa: il legame dei tarantolati col mare e più in generale con l’acqua[1], considerati fin dall’antichità veri e propri agenti terapeutici. Una prima traccia, ritornata alla luce di recente, affiora nell’opera dell’umanista Elisio Calenzio (1430-1502 circa), che, in una sua lettera del 1470 circa, afferma che in Puglia (ma con ogni probabilità riferisce di sue osservazioni a Taranto e dintorni) ci sono tarantole decisamente velenose e di tipi molto diversi, a cui corrispondono differenti modi di cura. Riguardo alle vittime dei morsi si dice che:

alcuni chiedono di essere sepolti vivi, altri di essere trascinati per i piedi per la città, altri allo stesso modo per mare, perché altrimenti morirebbero. C’è chi gradisce barche o battelli con canti e musica, c’è chi cerca sesso, chi lo rifiuta, chi mangia di continuo, chi fa qualcos’altro di ignobile[2].

Al tema accenna anche l’erudito tarantino Giovan Giovine che nel suo Antiquitate et varia Tarantinorum fortuna (1589) raccomanda di non bagnarsi con la stessa acqua di cui si sono serviti i tarantati, perché la cosa farebbe cadere in grandi sofferenze[3]. Solo di due anni successiva è la “relazione sulla tarantola” che il vescovo di Gravina, il modenese Antonio Maria Manzoli, scrisse nel 1590 ad uno dei più noti naturalisti del tempo, Ulisse Aldrovandi, in cui si afferma che un tarantato morso vicino a qualche fontana:

non ballaria se prima non gli portasse un mastello pieno d’acqua e ivi s’attuffa o con il capo o con le braccia nude, di modo che non vorria far altro, tanto gli diletta la detta acqua[4].

Epifanio Ferdinando, medico di Mesagne, centro non molto lontano da Brindisi, nel 1621 pubblicò uno dei testi più importanti della letteratura storica sul tarantismo, se non altro per l’ampiezza dei casi riportati, frutto di osservazione diretta[5]; in esso riferisce che i tarantati sembrano trovare conforto alla vista del mare e dell’acqua, manifestano desiderio ardente di bagnarsi e gioia al solo sentirne parlare. Inoltre annota che le “fanciulle tarantate si lanciano nei pozzi, esibiscono le parti intime, si strappano i capelli e gridano”[6]. Arricchisce il nostro quadro Athanasius Kircher, importante intellettuale gesuita di epoca barocca, che dedicò pagine celebri alla tarantola pugliese, in ben tre delle sue numerosissime opere[7]. A proposito delle passioni acquatiche dei morsicati ci racconta che:

Alcuni (la qual cosa è degna di massima meraviglia) son soliti non aver mai pace se non prendono in mano un vaso pieno d’acqua, con il quale compiono gli stessi gesti che abbiamo detto compiere i gladiatori (lo lanciano ora per aria, ora per terra e lo riafferrano con destrezza). Certi desiderano ardentemente vedere, in mezzo allo spazio destinato alla danza, delle conche piene d’acqua, circondate da verdi erbaggi e soprattutto da fogliame di canna, dal quale traggono grandissimo diletto, come dall’acqua nella quale sono soliti immergersi ripetutamente con le braccia e con le mani, quando non addirittura sommergersi con tutta la testa, agitando l’acqua con il movimento delle braccia, né più e né meno che come fanno sbattendo le ali gli smerghi e le anatre[8].

Nei canti eseguiti in occasione delle terapie musicali erano spesso intercalati distici che legavano l’amore per la donna amata con la passione per il mare, di cui fornisce un esempio:

Allu mari mi portati,

Se volete che mi sanati!

Allu mare, alla via!

Così m’ama la donna mia!

Allu mari, allu mari:

mentre campo t’aggio amari![9]

L’irresistibile desiderio del mare nutrito dai tarantati poteva altresì generare situazioni davvero complicate. Secondo il naturalista seicentesco Paolo Silvio Boccone gli sventurati “vi si gettano con violenza, e cecità tale” che gli astanti

sono obbligati a legare i Pazienti alla poppa della Barca in mezzo alle acque, e li Sonatori di dentro suonano, e in quella forma resta satisfatta l’imaginazione depravata, e corrotta degl’Infermi[10].

Kircher riporta anche l’inusitato caso di un cappuccino di Taranto che, avendo avuto dai superiori la proibizione di eseguire la consueta terapia coreutico-musicale, un giorno, preso da un impulso irresistibile ad immergersi, fuggì dal convento e si inoltrò nel mare con grande impeto, trovandovi infine la morte per annegamento[11]. Che la passione per il mare a volte potesse avere conseguenze nefaste è confermato dal celebre filosofo e vescovo anglicano irlandese George Berkeley, che visitò l’Italia e la Puglia nei primi del Settecento in cerca di segreti artistici, architettonici e naturalistici ed ebbe modo di osservare più volte – da nord a sud della regione – danze di tarantati e ascoltare racconti sul tema. Nel suo Diario di viaggio riferisce una notizia appresa a Taranto dal “console”, per cui coloro che venivano colpiti dalle tarantole erano spesso come “vittime di una pazzia febbrile” e a volte, conclusa la danza, “si gettavano in mare e finivano per annegare se qualcuno non li avesse salvati”[12].

Un altro viaggiatore che attraversando la Puglia meridionale nel 1797 restò molto incuriosito dal tarantismo, su cui raccolse informazioni assistendo anche ad alcuni momenti del rito, è il pittore e scrittore francese Laurent Castellan. Nelle Lettres sur l’Italie[13] racconterà i suoi viaggi italiani, arricchendo il testo con pittoreschi disegni dei luoghi visitati, e tratterà anche del male della tarantola, riferendo che “qui si crea l’opinione che i malati fuggano dalla società, cerchino l’acqua con avidità e ne approfittino anche se non sono osservati”.

Anche il noto scrittore di Manduria Giuseppe Gigli conferma che i tarantati agognassero ballare nell’acqua, aggiungendo, come particolare, l’uso di versarsi l’acqua sul capo e sulle spalle[14]. Dettagli che si ritrovano in altre testimonianze, fra cui quella di Giovan Battista Gagliardo, autore di una Descrizione topografica di Taranto (1811), secondo cui le tarantolate “credevano, e facevano crederlo anche ai loro amanti, che senza rivoltarsi nell’acqua, ciò che dicevano spurpurare, non sarebbero guarite”[15]. Sullo stesso tema occorre certamente segnalare l’esperienza che la colta ed eclettica viaggiatrice inglese Janet Ross consegnò in suo libro[16], scritto dopo un viaggio in Puglia nel 1884, che all’epoca ebbe una certa diffusione. Molto affascinata dal colore locale e dai fenomeni “folkloristici”, si trovò ad assistere, presso la masseria di Leucaspide a Statte (Taranto), al ballo della “pizzica-pizzica”, di cui tratteggia una vivace descrizione, poi fece amicizia con un possidente del luogo, don Eugenio Arnò, che la ospitò e le diede informazioni sulle caratteristiche del tarantismo diffuso nella zona. Da lui apprese l’esistenza di un tarantismo “secco” e di un tarantismo “umido”. Nel caso ricorra quest’ultimo:

i musicisti vanno a sedere per lo più vicino ad un pozzo, dove la tarantata viene irresistibilmente attratta; e mentre la disgraziata balla, un numero straordinario di parenti e amici la inondano d’acqua, per cui, diceva Don Eugenio, “è incredibile la quantità d’acqua benedetta che viene consumata”[17].

La presenza di conche o tini pieni d’acqua compare con grande frequenza nella letteratura storica, tanto che Ernesto de Martino si chiede se:

la tradizionale conca colma d’acqua nella quale diguazzano i tarantati non assolvesse almeno in dati casi la funzione di modesto surrogato casalingo in cui spegnere simbolicamente un ardore che nel suo cieco trasporto poteva sospingere a disperate fughe verso il mare e a pericolosi salti in acqua[18].

In tempi più recenti, a San Vito dei Normanni una approfondita ricerca sul campo di Fernando Giannini ha identificato intense pratiche di tarantismo rimaste attive fino al secondo dopoguerra[19]. Fra queste sono compresi anche i complessi rituali collegati alla presenza della “taranta acquarola”, che pretendeva un ballo in grandi contenitori pieni d’acqua. Così racconta Vincenzo Grassi, novantenne, nel giugno 1979:

Ora non si sentono più di queste tarantate… prima ogni anno due-tre ce n’erano a S. Vito; dicevano che la facevano per speculazione… perché tutti i giovani quando ballavano queste ragazze, ma c’erano anche le maritate che ballavano, non erano solo le ragazze, andavano, gettavano soldi a terra e ballavano, soldi di rame, il soldo, i due soldi, mezza lira, la lira, allora quello che stava ballando quando è arrivato l’altro che ha gettato i soldi doveva finire di ballare, così era… a volte per stizza andava un altro che non lo faceva neanche ballare e ballava lui e quella faceva soldi a terra ed allora si diceva che era per speculazione, ma no… lei ballava sola, ma quando gli uomini volevano ballare andavano, no, non c’era sempre l’uomo, gli uomini andavano a lavorare, andavano all’ora scuntrata, a mezzogiorno, alle sei la sera, alle quattro, secondo… poi mettevano attorno le corde, lo spago e mettevano i fazzoletti colorati… e li appendevano e lei ballava; quando si fissava che trovava il colore della taranta che l’aveva pizzicata allora sanava, non ballava più; … ballavano pure nell’acqua, allora l’aveva pizzicata la taranta acquarola, la taranta d’acqua… ballavano nell’acqua, facevano li crasti molto grandi, li cofini molto grandi pieni di acqua, allora lei dentro e ballava nuda, quindi non è questione che era per speculazione, era vero; … certe famiglie non volevano, quando ballava nell’acqua, che la vedessero, perché doveva uscire dalla casa nuda e ballava a porte chiuse, chiudevano la porta e suonavano, solo i suonatori la vedevano, anche se con tutte le cautele, la coprivano con il lenzuolo quando la mettevano nell’acqua, quando la uscivano ma non è che la potevano coprire proprio bene.

Quelle che emergono sono dunque usanze terapeutiche praticate con una certa continuità nel corso di diversi secoli, che scompariranno solo con la progressiva rarefazione del fenomeno. Tali pratiche, pure come abbiamo visto riccamente documentate, sono quasi sconosciute anche fra gli addetti ai lavori, forse perché non risultano essere presenti nel tarantismo considerato (a torto) “elettivo”, quello di Galatina e zone limitrofe. 

 

* estratto con piccole modifiche da Il tarantismo mediterraneo. Una cartografia culturale, Itinerarti 2021 (in particolare pp. 21-27).

[1] Di questo argomento ha trattato diffusamente Gianfranco Mele in un recente saggio a cui si rimanda per una trattazione più approfondita e alcune fonti qui non citate: Antiche cure e rituali del tarantismo presso il mare, le sorgenti e i corsi d’acqua, 25/11/2019, www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/25/antiche-cure-e-rituali-del-tarantismo-presso-il-mare-le-sorgenti-e-i-corsi-dacqua/.

[2] Elisio Calenzio, Epistolae ad Hiaracum, a cura di Michele Mongelli, Edizioni di Pagina, Bari 2020, p. 221.

[3] Giovan Giovine, Antiquitate et varia Tarantinorum fortuna, Napoli 1589, p. 107. Una traduzione, a cura di Rosario Quaranta, è proposta in Carlo Petrone (a cura di), Il morso della taranta a Taranto e dintorni, cit., pp. 202-206.

[4] La lettera, conservata presso la biblioteca universitaria di Bologna, è stata pubblicata in appendice in Angelo Turchini, Morso, morbo, morte. La tarantola fra cultura medica e terapia popolare, Franco Angeli, Milano 1987, pp. 201-203.

[5] Epifanio Ferdinando, Centum historiae seu observationes et casus medici, Venezia 1621, storia LXXXI, De morsu tarantulae, di cui è disponibile una recente traduzione in Silvana Arcuti, Epifanio Ferdinando e il morso della tarantola, Pensa Multimedia, Lecce 2002. Il testo contiene un’ampia descrizione del fenomeno, frutto dell’osservazione diretta su pazienti della zona del Salento settentrionale.

[6] Ivi, p. 64.

[7] Cfr. Daniela Rota, I gesuiti e le tarantole, LIM, Lucca 2012, con una traduzione dei passi di Kircher sul tarantismo.

[8] Ivi, p. 62. Tratto dal Magnes sive de arte magnetica libri tres, Roma 1641 (Colonia 1643, Roma 1654).

[9] Ivi, p. 68.

[10] Paolo Boccone, Intorno la Tarantola della Puglia, in Id., Museo di Fisica e di Esperienze variato, e decorato di Osservazioni Naturali, Note Medicinali e Ragionamenti secondo i Princìpi de’ Moderni, Venezia 1697, pag. 103.

[11] Daniela Rota, I gesuiti e le tarantole, cit., pp. 76-77.

[12] George Berkeley, Diario di viaggio in Italia (1717-1718), Ed. Digitali CISVA 2010, p. 53. Come ci ricorda Luigi Cazzato nel capitolo Sulle orme del mitico ragno: il tarantismo e i britannici del suo Sguardo inglese e Mediterraneo italiano: alle radici del meridionismo, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2017, pp. 83-101, “gli inglesi sono stati da sempre attratti dal rompicapo ermeneutico del mitico ragno, tanto che è diventato un topos della letteratura odeporica prima, durante e dopo l’era del Grand Tour” (p. 84).

[13] Laurent Castellan, Lettres sur l’Italie, faisant suite aux lettres sur la Morée, l’Hellespont et Costantinople, edite a Parigi nel 1819. Una delle lettere, descritta come Tarantola, effetti della sua puntura; guarigione del tarantismo tramite la danza; formalità osservate a tale riguardo; storia di una malata, contiene diverse considerazioni sul tarantismo e il racconto di alcuni episodi direttamente osservati, in particolare a Brindisi.

[14] Giuseppe Gigli, Il ballo della tarantola, in Id., Superstizioni, pregiudizi, credenze e fiabe popolari in Terra d’Otranto, Firenze 1893, ripubblicato in Carlo Petrone (a cura di), Il morso della tarantola a Taranto e dintorni, (a cura di), con cd, Giuseppe Laterza, Bari 2012 (I ed. Archita, Taranto 2002)., pp. 337-341.

[15] Giovan Battista Gagliardo, Descrizione topografica di Taranto, Napoli 1811, pp. 64-65. La parola “spurpurare” significa sfogarsi, prostrarsi attraverso il ballo. Cfr. Antonio Basile, Gioconda miseria. Il tarantismo a Taranto. XVI-XX secolo, Progedit, Bari 2015, p. 71 e la nota 13, p. 89.

[16] Janet Ross, The land of Manfred prince of Tarentum, pubblicato a Londra nel 1889, nell’edizione italiana La Puglia nell’800. La terra di Manfredi, Capone, Lecce 1978.

[17] Ivi, p. 139.

[18] Ernesto de Martino, La terra del rimorso, cit., p. 145.

[19] Cfr. Fernando Giannini, Tre violini. Inediti del tarantismo, con cd, Kurumuny, Calimera (Le) 2002 (la citazione è alle pp. 15-16) .Il tema è trattato anche nell’articolo di Maurizio Nocera, Incontro con Giovanni Conte, accompagnatore nella danza delle tarantate di San Vito dei Normanni, “Pietre”, IV, 1999, p. 7.

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