Salento: una frontiera fluida

di Wanda Marra
da l’Unità del 16/05/2004

Una terra di confine, sospesa tra tradizione e avanguardia, aperta agli stimoli e alle contaminazioni, crocevia di incontri e di esperienze. Il Salento non è solo pizzica, mare e ulivi, ma una vera e propria fucina di espressioni artistiche. Anche questo, però, rischia di essere fuorviante: se domina il barocco, che è apparenza scenografica, stupore meraviglia, scavando emergono realtà dolenti. E allora il Salento è contemporaneamente disoccupazione, malavita, sfruttamento.

«Dopo la caduta del Muro di Berlino, in questa terra allora dimenticata si è ricominciato a parlare di confine, grazie ai profughi che venivano dall’Albania. Il Salento è sempre stato un territorio di passaggio, ma ha cominciato a riscoprire la sua identità in quel momento». L’affermazione è dei Fluid Video Crew, gruppo di cineasti nato tra Roma e il Salento nel ‘95. Ma l’individuazione dello spartiacque è abbastanza condivisa. «La Puglia era quasi un’espressione geografica: noi pugliesi abbiamo preso coscienza della nostra identità dall’89, da quando si sono riaperti gli scali del Levante, perchè sono arrivati i clandestini». È ancora un regista, Edoardo Winspeare, a parlare.

Ma insomma cos’è successo negli ultimi 15 anni? C’è un fenomeno emergente, la pizzica, danza tradizionale che si balla soprattutto in estate nelle piazze di tutti i centri salentini, e che adesso ha varcato il confine regionale. Quella che oggi sembra una delle nuove frontiere del divertimento originariamente era un ballo rituale, attraverso il quale la «tarantata», vittima di un rito di possessione, guariva grazie a questa musica ossessiva. La pizzica, però, non è che la punta di un iceberg di una «rinascita» ricchissima e multiforme.

Per addentrarci dentro le pieghe di questa terra, prendiamo in prestito il treno di Italian Sud-Est, «docu-western» dei Fluid, accolto calorosamente all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. «Il Salento è come una grande rete dal punto di vista geografico e culturale. Noi abbiamo messo in connessione varie realtà e le abbiamo unite attraverso la ferrovia del sud-est», racontano. Il treno percorre tutta la penisola, da Lecce ad Otranto, a Gallipoli. E tocca San Cesario di Lecce, dove c’è la casa- museo di una specie di Gaudì salentino morto negli anni ‘80, Ezechiele Leandro autore del «Giardino della pazienza», o Alessano, dove si lavora tutto l’anno per far arrivare presentazioni di libri nell’insediamento rupestre Macurano, o ancora Vincent City, la città costruita da Vincenzo Brunetti, pittore salentino che il sabato e la domenica dipinge davanti a 500-600 persone a suon di techno. «Il nostro cinema è un atto d’amore verso il Salento, che vuole rendere la complessità di questa terra barocca, piena di contraddizioni», spiegano i Fluid, che quelle contraddizioni le hanno filmate per esempio in Skiperia (97), un lavoro sui campi profughi o in un documentario sui pescatori di Gallipoli. «Quando racconto della mia terra, racconto del mondo» dice Winspeare, tre film all’attivo (con l’ultimo, Il Miracolo, è arrivato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2003), tra cui uno sulla pizzica, Sangue vivo. Il legame col Salento, Winspeare, che ha radici composite (origini napoletane e ascendenze inglesi, nascita in Germania), lo rivendica anche da produttore. Con la Saietta film ha realizzato corti, documentari, e due lungometraggi: Sale, un pout pourri di cortometraggi che fa riferimento già nel titolo al Salento e al mare, e A Levante (in uscita nei prossimi giorni), 6 corti girati da 7 registi tutti salentini e sotto i 30 anni. «Dietro il mio lavoro c’è una forte tensione morale – ci tiene a precisare Winspeare – Il Salento ha un’anima che piano piano sta vendendo al diavolo. Io voglio contribuire affinchè questo non avvenga».

Il passaggio alla lingua del cinema è qualcosa di naturale e necessario, nel Salento. Forse perché energia e visionarietà, senso della corporeità e passione della voce, familiarità con la luce dilagante e con i giochi d’ombre sono elementi che appartengono profondamente a questa terra. Dal cinema di Carmelo Bene al cinema di Edoardo Winspeare e dei Fluid Video Crew la lingua delle immagini vive di una vita intensissima ed estrema.

L’immagine è di Antonio Prete, salentino d’origine, trapiantato a Siena, dove insegna Letterature Comparate all’università. Una serie di libri fondamentali dedicati a Leopardi e la traduzione de I Fiori del Male di Baudelaire dicono in due parole la statura dello studioso. Ma poi, c’è l’attività dello scrittore: L’Imperfezione della Luna (Feltrinelli 2000), raccolta di «prose poetiche» che hanno al centro immagini, suoni, sapori del Salento e Trenta gradi all’ombra, un volumetto appena uscito da Nottetempo, che raccoglie trenta movimenti narrativi verso e sull’ombra.

La letteratura, ancorata alla terra e al contempo cosmopolita, è centrale per la vita culturale del Salento. «Sono state fondamentali in questa zona università, conservatorio e accademia, tre direttrici importanti dell’agire culturale sul piano della ricerca. E anche il nostro giornale ha avuto una funzione in questa stagione così fiorente», ricostruisce Massimo Melillo, tra i fondatori del Quotidiano di Lecce, Brindisi e Taranto nel ‘79. Qualche archetipo illustre, allora. Tra i critici e gli studiosi del Novecento salentino, spiccano Oreste Macrì e Vittorio Bodini. Quest’ultimo, soprattutto, è imprescindibile, per la sua attività poetica e il lavoro di traduttore di Cervantes. E poi il gruppo di ricerca etno-antropologico, sulla scia degli studi di Ernesto De Martino, composto tra gli altri dalla scrittrice Rina Durante, da cui nasce il Canzoniero greco salentino. Il tentativo di seguire questo percorso letterario è alla base di Novecento letterario leccese, un’antologia uscita nel 2002 presso la casa editrice Manni.

Del fervore editoriale diffuso nel Salento Manni raccoglie lo spirito meno provinciale, e più avventuroso. Il libro come testimonianza, invenzione, ricerca. Il libro, anche, come gesto politico.

A gennaio del 1984, esce il primo fascicolo de L’immaginazione, una rivista di letteratura contemporanea che si occupava di letteratura d’avanguardia. «Così è nata una rete di contatti e di amicizie. È stato prezioso il rapporto con Maria Corti, che non è salentina, ma che in Salento è stata molto – racconta l’editore Piero Manni – con gli anni abbiamo pubblicato Sanguineti, Malerba, Luzi, Leonetti e anche qualche autore salentino». Oltre alla nostra voce narrante, Antonio Prete, Manni indica alcuni degli autori contemporanei salentini più interessanti: Livio Romano, il poeta dialettale Nicola de’ Tonno di Maglie, Salvatore Toma e Antonio Verri, sorta di poeti maledetti degli anni ‘70 e ‘80, entrambi morti, il primo suicida, il secondo in un incidente stradale.

Il più giovane e probabilmente più noto ha un rapporto di odio-amore con la sua terra. 34 anni, nato a Nardò, Romano, andato via e poi tornato 4 anni fa, ha scritto una raccolta di racconti proprio sul tema del partire e del tornare, Mistandivò (Einaudi 2002). E l’anno scorso ha pubblicato per Sironi un reportage-narrativo Porto di mare. «Ho raccontato la battaglia civile di un comitato spontaneo contro il tentativo di costruire un grosso porto turistico, in un posto dove c’è un parco marino, con alle spalle il parco naturale e lungo la scogliera i resti dell’uomo di Nehandertal. È una storia locale nella quale moltissimi si sono riconosciuti: mi sono arrivate tantissime lettere. E da questo libro sono diventato un punto di riferimento per gli ambientalisti, un’emblema. Un’altra delle contraddizioni tipiche del Salento: di solito mi chiamano l’antimeridiano, perché faccio sempre ironia su certo tipo di meridionalismo». L’impegno sociale e politico è uno dei fili che attraversa il Salento. Ed è un luogo militante il fondo librario dedicato ad Antonio Verri, luogo di incrocio (sta anche su una strada ad angolo di Lecce) dove si incontrano molte sensibilità e forme espressive (musica, poesia, arti visuali). «Verri era un militante, produceva continuamente libri e giornali – spiega Mauro Marino, uno degli animatori del Fondo Verri – era un punto di unità di moltissime esperienze di questo territorio, con una corrispondenza internazionale larghissima». Da questa figura deriva la specificità delle attività del centro: «Noi facciamo una serie di lavori sul disagio esistenziale. Adesso, per esempio, lavoriamo in un centro per ragazze con problemi di alimentazione. Mentre con il Dipartimeno di dipendenze patologiche di Maglie abbiamo progettato un giornale di strada,

Controverso nel quale sviluppiamo una riflessione su queste problematiche. E poi abbiamo un’attività ordinaria, fatta di incontri, lezioni, proiezioni di film, concerti. Giochiamo un ruolo aggregante di servizio e di supporto».

Lo sforzo di far vivere ed emergere culture poco conosciute è alla base anche di una casa editrice originale e interessante, Besa, nata circa 7 anni fa: il travaglio dei Balcani, il crogiolo multietnico del Mediterraneo, la solarità transnazionale del mondo ispanico dall’Europa alle Americhe. «La letteratura balcanica, per esempio, in Italia è una sorta di tabù, mentre invece è grandissima – spiega Livio Muci, l’editore – Ci occupiamo soprattutto della letteratura migrante scritta in italiano da stranieri. Il più importante è Ron Kubati un albanese 30enne autore di due romanzi, studiatissimi negli Stati Uniti. Per noi l’immigrazione non è un fatto puramente sociale, ma culturale». E aggiunge un concetto illuminante: «Il Salento è predisposizione all’incontro, piuttosto che allo scontro». Tre riviste su tutte per entrare in questo «meticciato» letterario e dar voce agli «invisibili» dell’editoria italiana: Crocevia, Tabula Rasa, Melissi.

Lo sguardo sulla propria terra, sulle tradizioni di sofferenza e di funambolismo, di incantamento e di rabbia della propria terra. Ma anche – sull’esempio dell’Odin che è all’origine di questo teatro – lo sguardo sul mondo, sul dolore e sulle fantasticherie perdute di questo mondo.

Un contesto geografico difficile che diventa occasione di sperimentazione. È questa la cifra, così tipicamente salentina, dei cantieri teatrali Koreja. La compagnia nasce vent’anni fa in un paesino del leccese, Aradeo, e poi si sposta nel capoluogo, comprando una vecchia fabbrica e ristrutturandola a proprie spese. Fondamentale nella sua formazione l’incontro con l’Odin Theatre, fondato negli anni ‘60 da Eugenio Barba, anche lui salentino. Adesso ad assistere alle rappresentazioni non solo teatrali, ma anche di danza e di musica, nei capannoni e negli spazi aperti sono tantissimi. «Facciamo teatro e produciamo spettacoli. Il nostro è teatro di ricerca, un nuovo tipo di teatro popolare», spiega il direttore artistico Salvatore Tramacere, indicando come riferimenti Marco Baliani e Mario Martone. E ricorda spettacoli come Brecht’s dance, realizzato con Raiz degli Almamegretta, dove un’icona del teatro viene usata per parlare dei nostri tempi; oppure Acido fenico, insieme ai Sud Sound System sulla mafia, che ha avuto un impatto fortissimo sul territorio.

Crescevamo, ragazzi, nell’abbaglio della luce marina e nella protezione di una musica assidua, insieme malinconica e pazza, dolcissima e bizzarra. Voci incantate dal ritmo. Ritmo che era respiro dei corpi.

A proposito dei Sud Sound System. Un’esperienza imprescindibile per i destini musicali della penisola. «La musica per noi è innanzitutto amore ma anche un gesto consapevole di liberazione. Siamo nati alla fine degli anni ‘80 quando tutti andavano via. Chi rimaneva o andava in discoteca o doveva inventarsi un modo in cui vivere. E allora organizzavamo feste in campagna, lontane dal rumore urbano. Ci riunivamo per fuggire il logorio del normale. Volevamo riappropriarci non solo dei luoghi fisici, ma anche di quelli mentali. Abbattere la barbarie della mafia che era arrivata in un posto dove storicamente non c’era. Attraverso il reggae abbiamo iniziato a parlare ai ragazzi di strada, e molti ci hanno seguito», racconta uno del gruppo, Nando Popu. Grazie a loro, molti dei tantissimi gruppi apparsi sulla scena hanno un’occasione: le edizioni Salento Sud System mettono a disposizione uno studio di registrazione – il primo del Sud – dove sono seguiti. Questo parte dal reggae. E arriva, per citare un solo gruppo su tutti, agli Après la Place che fanno reggae e ska. La pizzica è ovunque, ma diventa anche oggetto di contaminazione, per esempio con i Nidi D’Arac. E poi? In un’antica masseria-laboratorio nelle campagne salentine, l’Albania Hotel, si incontrano musicisti di tutto il mondo (magrebini, rumeni, bulgari, albanesi, americani), con una forte vocazione all’impegno politico. Per esempio lavorano con gli extracomunitari senza permesso di soggiorno gli Opa Cupa, che fanno una sorta di balcan-jazz. E il loro leader, Cesare d’Anna, fa parte anche dei Taxfree, che suonano jazz elettronico. E poi si potrebbe continuare. A lungo.

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