di Vincenzo Cazzato
da l’Unità del 3 marzo 2007
L’APPELLO. Dalle ville della «Cupa» nel leccese a quelle dell’entroterra di Gallipoli: una regione di stupende testimonianze architettoniche e paesaggistiche oggi in pericolo.
Qualcuno potrà dire che il Salento non è la Val d’Orcia, che il suo paesaggio, ricco di testimonianze storiche diffuse sull’intero territorio, non è ancora fra i siti inclusi dall’Unesco nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità; che la denuncia di un cittadino che ha a cuore la sorte di questi luoghi non ha lo stesso peso mediatico di quella del professor Asor Rosa e non potrà mai essere ospitata sulle prime pagine di “Repubblica” creando un caso nazionale (e internazionale).
Ma qualcosa bisogna pur fare per l’amore nei confronti di una terra che i viaggiatori del Sette e dell’Ottocento non esitavano a definire un giardino continuo. Dal terrazzo della masseria di Leucaspide, fra Taranto e Massafra, dimora di Sir James Lacaita (l’Italian englishman, il gentleman farmer, il pugliese alla corte d’Inghilterra), Janet Ross alla fine dell’Ottocento ci fa comprendere quanto sia difficile circoscrivere nel Salento i confini del giardino, in quanto la realtà oltre il giardino è pur sempre un giardino. Un giardino all’interno del quale trovano posto in una storia infinita una serie di sistemi policentrici nati in questa straordinaria parte della penisola nel corso dei secoli, collegati fra loro da una fitta rete di relazioni che connettono centri urbani, coste, campagne in un unico e singolare sistema paesaggistico: dai menhir ai dolmen, dalle torri costiere alle masserie, dai casini alle ville (quelle cinquecentesche e quelle dell’eclettismo) con i loro spazi annessi e gli arredi costituiti da portali, pozzi, viali colonnati, etc.
Il Salento non è nella Lista del Patrimonio Mondiale, tuttavia si sta lavorando in questa direzione perché ne faccia parte, cercando di individuare centri urbani, siti archeologici, paesaggi significativi non stravolti da presenze “incongrue”.
Ma esistono davvero questi paesaggi? Si può ancora parlare di un paesaggio salentino? Un paesaggio che non sia stato violentato dall’azione speculativa, un paesaggio segnato dalla presenza di muri a secco e di antiche carrarecce, di menhir e di dolmen, di trulli e di “pajare”, di torri e di masserie, di aie e dei segni della “centuriatio” romana?
L’urbanizzazione selvaggia lungo la fascia costiera ha ormai quasi chiuso il suo ciclo proponendoci di tutto. Restano pochi brandelli di terra non edificati, ma per quanto tempo ancora? Quale è sul versante jonico il futuro della zona del Pizzo vicino Gallipoli, o del tratto di costa fra marina di Pescoluse e Torre Pali, o fra Torre Pali e Lido Marini?
Dalla costa il fronte speculativo sta pericolosamente avanzando verso l’interno. Se finora sono state le torri costiere i punti di aggregazione dell’urbanizzazione, ora lo stanno diventando le costruzioni rurali, le masserie. Si potrebbe individuare un ampio campionario di scempi compiuti dal momento in cui le masserie da strutture produttive sono state trasformate – spesso con contributi regionali – in strutture di ricezione turistica, con l’aggiunta di corpi in finto rustico, di piscine, di zone con prato “all’inglese”; sottraendo da altre costruzioni allo stato di rudere elementi di arredo, persino pietre e tufi che hanno il pregio di possedere la “patina del tempo”.
I furti di pietre fanno pendant con i furti di alberi di olivo secolari che, nonostante tutto, continuano ancora a prendere la strada che li porta a nord, arredando i giardini delle ville della Brianza o lungo le rive del Brenta.
Quelle del Salento sono “pietre che parlano”, testimonianze di rapporti remoti tra l’uomo e la natura: menhir, dolmen, tumuli di specchie, pietre sovrapposte con perizia secolare per dar vita a una miriade di piccole costruzioni o di muretti. In questa regione affamata di terra (al punto da costringere il contadino a guadagnarsi a fatica piccoli brandelli da coltivare) la pietra si trasformava un tempo da ostacolo in materiale da costruzione, amalgamandosi con la natura. Scriveva il Bertaux: “Il lavoro stesso fatto dagli uomini per liberare la terra vegetale e l’uso dei frammenti calcarei, tolti uno ad uno dal campo, ha per effetto non di far scomparire le pietre, ma di renderle più visibili, e da più lontano: ammucchiandole, sembra che le si moltiplichi”.
Si leggono di frequente sulla stampa locale, soprattutto nel periodo estivo (e non è casuale), numerosi servizi che, in omaggio ai villeggianti che numerosi – ma ancora per quanto? – frequentano questi luoghi, propongono itinerari alla scoperta delle “bellezze” di un Salento divenuto di gran moda all’insegna della “pizzica” e della “taranta”. Si sente parlare in termini entusiastici del sole, del mare, del vento: una formula che, nella versione dialettale – “Salentu: lu sule, lu mare, lu vientu” – ha fatto il giro dell’Italia, sulle magliette e sugli adesivi da apporre sulle auto.
È vero, il Salento è questo: sole, mare, vento (il vento della Japigia, che spazza le nubi e di cui parlano le cronache del Cinquecento). Doni della natura che la mano distruttrice dell’uomo non è riuscita ancora a distruggere. E il paesaggio con le sue peculiarità e le sue bellezze? I fotografi ai quali sono affidati reportages per libri strenna e per dépliant turistici compiono ormai miracoli per inquadrare porzioni di territorio ancora integre; e quando non si riesce a conseguire il risultato, si fa ricorso al ritocco con “photoshop”.
Binomi come quello cultura-svago, che in questa regione potevano costituire un volano per un turismo diverso, sono destinati già da ora (e, ancor di più, col tempo) a fallire per la distruzione dell’elemento che ne costituisce in un certo senso il collante: il paesaggio.
Immergendosi nelle acque cristalline dello Jonio, capita di tenere gli occhi aperti nuotando verso il largo; ma il ritorno a riva è con gli occhi chiusi, per non vedere case costruite sulla sabbia, complessi turistici realizzati in gran fretta per scoraggiare eventuali denunce e che già sanno di vecchio, chiese monumentali e costosissime a forma di prora di nave – quale originalità! – edificate senza alcun motivo (in estate le messe si celebrano all’aperto).
In alcuni siti web di queste località balneari non manca il richiamo al numero di “vele” assegnate da questa o da quella “goletta”, senza considerare che paradossalmente sono proprio simili graduatorie – redatte spesso sulla base di parametri parziali – a favorire nuove speculazioni, a far crescere il valore dei suoli. Come è accaduto in Val d’Orcia, dove le lottizzazioni vengono pubblicizzate nel nome dell’Unesco.
Perché mai in questa regione non si ha il coraggio di proporre un viaggio attraverso gli scempi – e sono tanti – perpetrati ai danni del territorio e dei cittadini, che saranno i primi a pagare il prezzo di una politica che finirà col giovare solo a poche persone, disinvolte e spregiudicate? Gli edifici di Punta Perotti si possono abbattere in pochi secondi, il degrado diffuso no.
La casistica degli “orrori” potrebbe essere assai ampia: dalle cave utilizzate come discariche abusive, ai villaggi turistici a due piani costruiti su siti archeologici, dai progetti di lottizzazione lungo la costa (da quelli realizzati e in fase di realizzazione, a quelli già depositati in regione) alla distruzione delle costruzioni rurali e dei muri a secco. Si potrebbe allestire un dossier sugli interventi sciagurati di cui sono vittime le “pajare” – dalla distruzione totale alle varie forme di “recupero” – o sui “restauri” dei muri a secco: dalla sostituzione con muretti in blocchi di cemento, alla sovrapposizione di reti mimetiche in plastica. A proposito dei muri a secco, i contributi regionali per la ricostruzione e il restauro vengono concessi solo se c’è un impegno a non fare uso di cemento per almeno cinque anni. E dopo?
Viene da chiedersi quale amministratore sa che esiste una Convenzione Europea del Paesaggio. Probabilmente nessuno, e comunque nessuno è interessato a conoscerne i contenuti. I sindaci sono spesso architetti, ingegneri, geometri. Con le dovute eccezioni, queste qualifiche non costituiscono una garanzia ai fini della tutela del paesaggio. Se infatti in alcuni casi la padronanza di certi meccanismi, derivante dall’esercizio della professione, viene posta al servizio del cittadino, in altri queste stesse conoscenze servono soltanto a perseguire propri interessi.
Una volta l’amministratore di un piccolo paese ebbe a dire che il territorio comunale è troppo vasto per poter esercitare un controllo capillare. Ma il Salento è una realtà costituita da paesi che, soprattutto verso il Capo di Santa Maria di Leuca, si succedono senza soluzione di continuità, a poche centinaia o decine di metri di distanza l’uno dall’altro. E poi, nell’era della comunicazione, non è forse consentito prendere visione degli scempi “in tempo reale”, rimanendo seduti davanti alla propria scrivania e collegandosi a uno dei siti che fotografano il pianeta dall’alto?
Certo, le immagini satellitari documentano scempi ormai perpetrati, mentre ci sono anche quelli in procinto di essere compiuti. Visionando, presso l’Agenzia del Territorio (l’ex Ufficio tecnico erariale), un foglio di mappa aggiornato relativo a un contesto rurale, ci si può rendere conto di quanti terreni siano stati recentissimamente frazionati in particelle di piccole dimensioni: un processo che sta subendo un’accelerazione a dir poco preoccupante e che corrisponde a vere e proprie lottizzazioni di fatto.
I meccanismi sono fra i più perversi. Accade, anche con la complicità di tecnici comunali, che si vendano e si acquistino terreni agricoli con all’interno un edificio allo stato di rudere (trullo, “pajara”, “liama”, un antico recinto per ovini), frazionando l’originaria superficie di pertinenza senza neppure garantire il lotto minimo previsto dalla legge (e al di sotto del quale è possibile frazionare solo tra padre e figlio).
Accade anche che chi vuole edificare in zona agricola e non possiede i requisiti di bracciante o di coltivatore diretto (dimostrando che almeno i 2/3 del reddito derivano dalla conduzione del fondo sul quale si chiede di costruire), per poter usufruire di agevolazioni, si accordi – mediante sottoscrizione di atti privati e dietro lauti compensi – con alcuni agricoltori, che vengono fatti figurare come affittuari o addirittura come proprietari.
Un meccanismo assurdo consente poi di accorpare in un unico lotto terreni dello stesso proprietario, anche distanti fra loro, purché nello stesso Comune, al fine di sfruttare al massimo l’indice di cubatura consentito. In assenza di controlli, le nuove costruzioni non rispettano i caratteri tipologici di un’abitazione colonica o rurale.
La Regione certamente ha avviato una serie di iniziative. È recente, ad esempio, una delibera della Giunta per una carta dei beni culturali della Puglia. Siamo tutti d’accordo che per tutelare bisogna in primo luogo conoscere, ma c’è chi vede con favore che si percorra la sola strada della conoscenza, rinviando a data da destinarsi di percorrere quella degli interventi concreti di tutela. Serve insomma una politica più coraggiosa, che arresti un finto sviluppo destinato a privare nel giro di pochi anni il paesaggio salentino della propria identità.
Cosa c’è da sperare? Che, come è accaduto con gli inglesi fra Otto e Novecento in Toscana, gli “stranieri”, più sensibili ai problemi del paesaggio, ne acquistino porzioni sempre più ampie come è accaduto di recente nei pressi del canale del Fano, nel Basso Salento? Un Salentoshire dopo il Chiantishire? Può darsi. Ma sarebbe davvero triste se gli abitanti di questo estremo lembo d’Italia non si rendessero protagonisti in prima persona di una ribellione culturale in difesa della loro terra, che è la terra del sudore dei loro padri che con grande fatica l’hanno coltivata trasformandola in un giardino; anche quando le pietre avevano il sopravvento sulla terra. Ma i primi giardini – scrive Pierre Grimal – non sono forse sorti nel mezzo di un deserto?
VINCENZO CAZZATO
Comitato nazionale per lo studio e la conservazione dei giardini storici
Università del Salento, Lecce – Facoltà di Beni Culturali