Taranta e Zalone: perché tutto accade in Puglia

otrantoMosaicodi Marco Ferrante, da Il Riformista del 16/17 marzo 2010

Metamorfosi. E’ diventata la regione più mediatica d’Italia. Era fatta di parecchio Federico II, cattedrale di Trani e barocco leccese. Ora c’è il nuovo cinema, la nuova letteratura, la pizzica, Patrizia D’Addario, la procura di Trani, le primarie, Nichi Vendola. E d’estate la notte di Melpignano, quando il glocal diventa un po’ frontiera e un po’ agenzia viaggi, La controversa questione della masseria

La notte della Taranta elettorale. Scopriamo la Puglia. Si chiamava così il libro di lettura delle scuole medie. Era verde. Diceva quanti eravamo e dava piccole sintetiche informazioni sulla natura dei terreni ad Alessano, a Margherita di Savoia o sul folklore di Lucera. All’epoca la Puglia vista da fuori era le grotte di Castellana, l’acquedotto pugliese, lo Zoosafari, Alberobello, Castel del Monte, parecchio Federico II, i natali di Carmelo Bene, Aldo Moro e Rodolfo Valentino, un po’ di barocco leccese e un po’ di cattedrale di Trani, ma appena un assaggio, come se fosse un duomo di Orvieto, ma molto più meridionale. Per i locali ovviamente era un’altra cosa. 450 chilometri di federalismo antropologico.

 

Questo federalismo antropologico andava da un residuo di feudalità napoletana (il castello Marchione di Fabio Boiano, per dire una delle cose più belle che poteva venire in mente allora), fino alle ciminiere dell’Italsider, dagli ettari ed ettari di vigneti a tendoni fino ad Albano e Romina Power. Poi c’era un misto di masserie, di negozi baresi dai nomi baresissimi, come Trizio o Mincuzzi, e poi di traghetti per la Grecia, milanesi di passaggio che si fermavano a comprare trulli tra Cisternino e Ostuni, di Gianni Ciardo («dimmi una parola focosa…»«Pibigas») e di Maurizio Micheli «dalla splendida cornice dei giardinetti pubblici di Bitonto». Non Arbore, perché era di Foggia, che non è esattamente la Puglia felix. C’erano anche allora i Fitto. Salvatore presidente democristiano della regione, sua moglie e due figli ragazzini, Raffaele e Carmela, bellissima.

C’era una letteratura dei luoghi, fatta di tre cose: a) L’epica agraria di Raffaele Nigro, lo scrittore de “I fuochi del Basento”; b) Una specie di intellettualità diffusa, locale, fatta di un arciprete o di un professore di lettere o di un avvocato, scintille di vanità provinciale che generavano libriccini, spesso di qualità, pubblicati a spese dell’autore: per esempio che cosa c’era di più divertente dell’allegria e degli occhiali spessi di Giuse Dimitri che era nato agrario, aveva fatto il pubblicitario al nord (gli viene attribuita la paternità dell’omino della Bialettti), ed era tornato a casa a interpretare la parte dello spaesato di talento che scrive le gesta di re Archidamo di Sparta alle prese con l’assedio della città di Manduria? c) Nel 1962, una storica della lingua italiana, Maria Corti, pubblicò un romanzo intitolato l’”Ora di tutti”. Lei lombarda, trasferita a Lecce, colse l’essenza della pugliesità in un racconto bellissimo – nonostante la struttura corale con cinque voci narranti – sulla presa di Otranto da parte dei turchi nell’anno 1480, e sulla conseguente decapitazione di ottocento otrantini sul colle della Minerva il giorno 14 di agosto di quell’anno. È ancora la cosa migliore per capire le cose di qui.

Oggi molto è cambiato, come sempre. La questione pugliese è fatta di nuovissima letteratura, di nuovo cinema, di enogastronomia, di Patrizie D’Addario, di Bari trattata come una Gomorra, di Trani (procura), di turismo & masserie (di cui più avanti), e molto di politica. I Fitto ci sono ancora, Raffaele. Ma la più immediata identificazione della Puglia è un formidabile Checco Zalone che imita Vendola, il quale Vendola imitato, incontrato un bambino di sei anni al termine di un comizio, e il bambino di sei anni chiedendogli che cosa sarà della sua previdenza complementare, della prossima finanziaria e se saprà difenderlo dai poteri forti, Vendola-Zalone lo guarda tenero e stupito e grandiosamente gli dice: «bambino… ma tu, da me, che cazzo vuoi?».

Scopriamo il Pd

Dunque, la politica è il caso Nichi Vendola, il presidente uscente della regione, che da sinistra impone la sua ricandidatura a un Pd in condizioni difficili. La storia è questa in breve: in estate Vendola si trova in difficoltà, perché alcuni uomini della sua giunta sono colpiti da un’inchiesta condotta da un pool di magistrati contro i reati nella pubblica amministrazione. Vendola con una manovra di fantasia maoista (in questo c’è un punto di contatto con il Cav. del predellino o quello della Brambilla) rovescia il tavolo e se la prende con i partiti per la questione morale. Nel frattempo il Pd regionale di sostanziale osservanza dalemiana, giacchè D’Alema viene eletto in Puglia e qui è stato per anni il dominus, tratta con l’Udc un accordo elettorale. L’Udc fa sapere: impossibile l’accordo su Vendola, disponibili sul sindaco di Bari Michele Emiliano. Mentre i partiti cercano – lenti – una soluzione, Vendola si candida comunque alle primarie e straccia per la seconda volta in cinque anni Francesco Boccia. Nel frattempo avendo l’Udc scelto – forse in ottemperanza a un patto con lo stesso D’Alema (questo fanno capire, almeno, i dalemiani) – di non passare dalla parte del Pdl e di appoggiare un candidato terzo, Adriana Poli Bortone, Vendola si ritrova molto favorito nei sondaggi e proiettato in una prospettiva di leadership nazionale.

Al momento il potere nel Pd è organizzato più o meno in questo modo. Vendola rappresenta una larga parte dell’opinione publica di centrosinistra e anche dell’apparato del Pd, nonostante egli sia fuori dal Pd: e cioè gli ex margheritini, gli antidalemiani, e l’area di prossimità alla società civile che a suo tempo aveva contribuito a lanciare la candidatura a sindaco di Bari di Michele Emiliano.

Emiliano è in questo momento l’unico vero potere locale alternativo a Vendola. Ex magistrato, vitalista, famiglia d’orgine di destra (lui ne parla sempre), titolare dell’inchiesta Arcobaleno – dalla quale risultarono dei presunti tentativi diessini di mettere le mani sulla protezione civile (coazione a ripetere della politica?) – fu candidato alla sindacatura da D’Alema e da un gruppo d’azione extrapartiti guidato dal sociologo Franco Cassano, sin dal nome un manifesto, “Città plurale”.

Oggi, a causa della sostanziale inesistenza della classe dirigente piddina locale Emiliano è presidente del Pd – né Ds, né Margherita – e avrebbe voluto lasciare la sindacatura e candidarsi a presidente della regione, anche su pressione dei dalemiani e con il consenso dell’Udc. Considerato in generale, per una specie di ipermovimentismo, politicamente un po’ ingenuo, è però una scorza di vero leader pop, autobiografico, meridionale, fisico. All’ultimo congresso regionale del Pd la sua area ha raccolto il 30 per cento dei voti, e in questi voti, c’è l’area pro-Vendola. Emiliano e Vendola devono andare d’accordo, ma Emiliano teme Vendola.

Il resto del Pd pugliese è fatto di ex margheritini che sono al 20 per cento, divisi in due, poco meno della metà franceschiniani, via Gianni Minervini, poco più della metà fioronisti e mariniani, via Gero Grassi.

Il grosso del partito, il 50 per cento sta con D’Alema e Bersani, ma su questi cosiddetti dalemiani sono i veri dalemiani ad avere delle perplessità. Il portavoce di quest’area, e segretario regionale, si chiama Sergio Blasi: persona intelligente è l’inventore di un modello culturale, quello della Notte della Taranta from Melpignano, provincia di Lecce, (di cui più avanti), base della nuova identità pugliese, o meglio base di quella identità che viene commerciata come nucleo del modello di sviluppo turistico della regione. In questo 50 per cento c’è un pezzo di opportunismo politico, giacché molti stanno valutando di riconsiderare il rapporto con Vendola: del resto un pezzo di partito e di dalemiani sono già passati con Vendola alle primarie.

Che cos’è Massimo D’Alema oggi per una regione come questa? Trapiantato a Bari da ragazzo come segretario regionale del partito, diventò col tempo ragione d’orgoglio per i quadri locali che lavoravano alla crescita di un capo, del successore di Longo e Berlinguer, dell’ultimo togliattiano. E, anche dai non comunisti, in una fase, era stato considerato l’erede della tradizione politica di questo Mezzogiorno diverso, che aveva prodotto Di Vittorio e Moro, quella generazione di socialisti (molto) più intelligenti dei democristiani che furono Formica e Signorile, in guerra perenne tra loro, e Pinuccio Tatarella. Oggi D’Alema – demiurgo e tutore – è meno punto di riferimento di ieri; e, nonostante la sconfitta alla primarie, è rimasto per la gente di qui l’incarnazione – in un certo senso scolastica, se si può dire così – del potere politico.

I poteri forti

Il potere forte più forte è l’Ilva. I Riva sono stati penalizzati dall’amministrazione Vendola con la legge antidiossina, che però per Taranto potrebbe essere l’inizio di una stagione nuova. Riva ha buoni rapporti con il centrodestra, soprattutto con un parlamentare tarantino che si chiama Pietro Franzoso, ed è un imprenditore che fornisce il siderurgico. L’Enel di Brindisi ha buoni rapporti istituzionali con il territorio, ma risponde con durezza all’estremismo ambientalista. Sono considerati non vendoliani.

Il terzo potere forte è l’Acquedotto pugliese, prima azienda locale, primo acquedotto d’Europa, in fase di risanamento a opera di Ivo Monteforte, che viene dalle municipalizzate del centro-nord. Monteforte è stato chiamato da Vendola. Si dice che la stretta sugli appalti e la gestione in house di una parte delle spese abbia alienato delle simpatie al presidente della regione. Anche perché sull’acquedotto ci sono interessi da parte di imprese private non pugliesi. Ma per ora la proprietà resta pubblica e lo strumento economico saldamente nelle mani della giunta. Anche se, recentemente, l’acquedotto ha corretto al ribasso un dato sulle perdite fornito da Vendola.

Gli imprenditori sanitari sono equidistanti, giacchè devono lavorare con le amministrazioni. Quelli del mattone pure, ma di base hanno delle simpatie. I De Gennaro sono divisi, quelli lato Emanuele, quelli del Baricentro e dell’interporto, sono di centrodestra (il capostipite Giuseppe De Gennaro fu senatore democristiano). Poi ci sono i De Gennaro costruzioni, divisi – ma non contrapposti – a loro volta: con il centro sinistra hanno candidato un Carmine con il Pd, mentre un altro cugino, Gianluca, è candidato con una lista d’appoggio al centrodestra. I Matarrese, ex democristiani, tradizionalmente stanno con il centrodestra, anche se un figlio di Michele Matarrese ha sposato una parlamentare del Pd. Confindustria si comporta da potere neutro, ma il presidente dimissionario Nicola De Bartolomeo ha chiuso un accordo con il centrodestra, per cui se Rocco Palese dovesse vincere andrà a fare il vicepresidente e l’assessore allo sviluppo economico (scelta su cui a Bari si discute molto). Al suo posto potrebbe arrivare il foggiano Zanasi, gradito anche a Emma Marcegaglia, la quale in questi anni ha stabilito buoni rapporti con Vendola. Qualcuno parla anche del leccese Piero Montinari, dal momento che il Salento non ha mai espresso un presidente regionale.

La maggior parte delle imprese, dalla Igeco di Cavallino (costruzioni, gestiscono il porto turistico di Brindisi) alla Leadri di Lecce, sono in mano a uomini di mondo. Diciamo che in generale l’industria pugliese avrebbe preferito Boccia che è stato appoggiato alle primarie, oggi si comporta in modo terzista: sotto sotto preferirebbe Palese, e intanto cerca sponde con Vendola (per esempio, Fabrizio Nardoni, presidente dei costruttori di Taranto, si è candidato in una lista vendoliana; e sempre con Vendola a Bari si è schierato Enzo Divella).

Capitolo banche. La popolare di Bari che compie 50 anni: l’ad Marco Iacobini, figlio del fondatore Luigi, è stato assessore al bilancio di una giunta di centro-destra, e quella è la sua sensibilità, ma ha anche eccellenti rapporti con D’Alema. La Popolare di Puglia e Basilicata, quartiere generale ad Altamura, naviga. La Banca popolare pugliese di Matino naviga pure lei, ma è in buona con Fitto e quindi con Palese.

I giornali la pensano così: la Gazzetta del Mezzogiorno ha una garbata simpatia per il centrodestra, l’edizione barese di Repubblica sta con Emiliano (e un po’ con Vendola), il Corriere del Mezzogiorno è di base neutro, ma in questa fase ha simpatia per Vendola; il Quotidiano di Lecce, caltagironiano, viene considerato neutro, anche perché Caltagirone non vuole dare la sensazione di simpatizzare per nessuna delle parti in causa essendo il suocero di uno dei leader nazionali, Pierferdinando Casini, che ha contribuito al bailamme pre-elettorale.

A Depressa

Per capire com’è nato il grande boom culturale e turistico pugliese bisogna andare a Depressa. Depressa è una frazione di Tricase, che fu il centro del feudo Gallone. Oggi Tricase d’estate è l’alternativa social alla scapigliata Castro e alla più compassata Leuca, forse l’ultimo buen retiro delle abitudini agrarie nella provincia italiana. A Depressa non c’è quasi nulla, a parte il castello. Qui vivono i Winspeare, origini inglesi, a Napoli dalla metà del 1700, ranghi dell’amministrazione borbonica. Nell’altra generazione, Riccardo Winspeare sposò Elisabetta del Lichtestein. Ebbero tre figli. Edoardo, il maggiore, è stato il primo cineasta della new wave pugliese, con “Pizzicata” e “Sangue vivo”. Ma soprattutto è stato il recuperante di un piccolo fenomeno etnografico, la pizzica, sul quale è stato costruito un pezzo del fenomeno salentino: mare, masserie, vino e musica locale.

In questi giorni Winspeare sta a Corsano, nel capo di Lecce, con una bambina neonata, Arcangela, avuta con Celeste, alta, incisiva, un genere di bellezza primaria salentina. Winspeare racconta come andarono le cose. Prima di fare “Pizzicata” per due anni cercò di seminare con un gruppo di amici il terreno locale. «Facevamo decine di feste in giro per il Salento, a base di pizzica, che era un ballo ormai quasi scomparso e che veniva dalla tradizione contadina. Avevamo cercato quelli che ancora se la ricordavano e abbiamo cominciato a promuoverla con queste feste. Mio padre pensava che fossi ammattito, era un’organizzazione continua, mio fratello Francesco e Francesco Marra mettevano a disposizione il vino e le feste si facevano in giro nei paesi del Capo». Perché lo faceva? «Innanzitutto perché mi piaceva la pizzica, poi perché volevo fare un film e anche perché volevo tirare fuori un pezzo del passato della nostra storia locale e farne un simbolo. Per promuovere le feste preparavamo dei manifesti freakkettoni, tipo “ballate la pizzica, farete meglio l’amore” oppure “Pizzica e comunione”. Alla fine funzionò e quando il film uscì, tutti sapevano che cos’era la pizzica».

Un piccolo ricordo di una mattinata estiva di quindici anni fa, al Ciolo, la scogliera sul lato adriatico di Leuca: «Potremmo andare sul set di Winspeare», dice Elisa che di solito la mattina esce con una minuscola barca gialla. Un’intera comunità salentina vedeva crescere il film, che assumeva quasi la forma di una decisione collettiva: il film che parla di noi. Così lentamente questa specie di seminativo produsse dei frutti che nessuno si aspettava in origine se non Edoardo Winspeare e i suoi più intimi. La riscoperta di un fenomeno del tutto marginale, etnografico, assimilabile alle leggende magiche sui munacieddi, diventò un fenomeno di massa e un fattore identitario nella “Notte della taranta”, un’iniziativa del comune di Melpignano. Ovviamente con il tempo tra l’invenzione orginaria (com’era perfetto, intangibile e assoluto il tempo in cui i contadini andavano a piedi nudi) e la sua trasformazione commerciale si è creata una piccola separazione. Dice Winspeare: «Sì, è chiaro che nella riscoperta della pizzica c’è una forma di artificialità, però era la riscoperta del lato poetico della cultura popolare. È successo anche al tango. In fondo del mondo contadino non esiste più niente». E così oggi tra il gruppo dei creatori della pizzica e gli organizzatori della Notte di Melpignano, Massimo Manera, Luigino Rossi e Sergio Blasi – quest’ultimo sindaco di questo piccolo paese e segretario regionale del Pd – c’è una dialettica, giacché i primi ritengono che il tarantismo sia diventato un fenomeno troppo spettacolare.

A Vendola piace, perché dice che una tradizione recuperata può diventare anche il pezzettino di un modello di sviluppo.

San Domenico

Sulla taranta ci fu una polemica culturale sul “chi siamo”. Mario Desiati, uno dei romanzieri della ondata letteraria degli anni Zero, scrive sull’edizione barese di Repubblica, il 22 luglio del 2005: «Basta, per carità, basta con la Pizzica. Non ne possiamo più. Sì, è vero la Notte della Taranta che viene oggi presentata in una grande conferenza stampa istituzionale è l´evento della nostra estate. Fa bene al turismo e mette l’anima in pace alle istituzioni rispetto ai giovani precari e un po’ arrabbiati. (…) Ogni torrida estate, ogni refolo di bella stagione significa feste etniche, sedani bagnati e vino sfuso di cattiva qualità, un paio di tamburelli e una fisarmonica, le puntuali grida di qualche esagitato: “Balla la pizzica, balla la pizzica tu che sei pugliese” indicandomi con il dito, il battito ritmico delle mani a seguire una musica distonica e i fianchi esposti a un tremore senza sprezzo del ridicolo. Party etnici radical chic, mostre del folclore, feste a tema e altre scemenze elitarie dove le sciure metropolitane vanno in estasi per tutto quello che è antropologicamente primitivo».

Questo genere di argomento è alla base di una specie di frattura tra economia e identità. Il boom della pizzica, ha contribuito a generare il turismo giovanile alternativo, che fa molto fatturato ad agosto. «La Puglia piace a questi ragazzi perchè è spirituale», dice Francesco Marra, imprenditore agricolo, produttore di vino, e osservatore freddo della deriva della pugliesità. Ma la stessa discussione è nata intorno al principale simbolo della regione, l’unico – insieme al carattere individualistico delle persone – che unisce i pugliesi da Trani a Patù, le masserie.

E’ una storia divertente e con i suoi snobismi. Per i pugliesi la masseria è aspra. Più aspra è, più è bella. Quelli che vengono da fuori, invece, hanno un’idea per lo più balinese della masseria, luogo orientale, come suggerirebbe, per esempio, un malinteso culto di Otranto, che è sì la città più orientale d’Italia, ed è aperta, ospitale, sincretica come tutta la Puglia, ma anche la città del massacro, che è una storia di gente – questo comprese Maria Corti – che non vuole essere rotta i coglioni (in pugliese nel testo).

Questa pretesa di applicare alla masseria canoni esotici è molto fuori luogo per gli ortodossi locali. Ancora più fuori luogo è la pretesa di assegnare alle masserie caratteri di modernità, di comodità, di globalità, o di idee calligrafiche che esse masserie intimamente respingono. Le masserie sono il simbolo precipuo della società agraria, il loro tempo sociale più alto furono gli anni Trenta, quando furono oggetto di una nuova ventata di modernizzazione (bagni, pavimenti, arredi più urbani), ma ancora completamente al centro del rapporto tra agrari e contadini. La masseria perfetta è quella che parla di quel momento storico, come è evidente in quelle murgesi, da Palesi a Tagliente alla grandiosa Lupoli. Pertanto, non vanno d’accordo con il prato inglese, diffidano delle piscine (ma si può trovare un compromesso), respingono l’esposizione della pietra viva (con alcune eccezioni), non ammettono l’ostentazione del confort, perché sono immaginate d’inverno per il fuoco del caminetto e d’estate per il fresco, mentre fuori il caldo è torrido. Ovviamente questa è in parte letteratura, nostalgia, attaccamento ai tempi d’oro. Ma il risultato è una certa frizione tra chi c’era e chi arriva. Il dissidio diventa radicale nel fenomeno dello sfruttamento turistico della masseria. Ci sono da una parte i puristi che cercano di conservare il senso agrario dei luoghi, dall’altra i modernisti, molto operativi soprattutto nel Salento. Simbolo detestato del modernismo è la masseria San Domenico. È stata una delle più belle masserie di Puglia, identitaria, marina, grande, fascinosa, ricca. Oggi è contemporaneamente famosa e privata della sua storia, un albergo sulla costa adriatica a nord di Brindisi tra Savelletri e Torre Canne, con il prato inglese d’ordinanza, un incongruo laghetto artificiale, e un generico allusivo ottocentismo fatto di stencil, mantovane, tappezzerie che alludono al lusso, e mobili di ferro battuto tipo Unopiù.

L’eterogenesi della masseria suscita la diffidenza locale, per esempio nei confronti dei forestieri che difendono il territorio come se fosse sempre stato loro (ma è una scusa mondana, ovviamente), o verso i ristrutturatori indiscreti, nessuno ristruttura come me, nessuno interpreta come me lo spirito dei luoghi. I pugliesi che sono ospitali, si seccano abbastanza di fronte a questi esploratori.

SECONDA PUNTATA

Cè un boom di letteratura pugliese o sulla Puglia – cominciato con la “Casa Rossa” di Francesca Marciano – e di successo al botteghino delle agenzie viaggi. Si ravviserà un po’ di retorica sulla regione laboratorio, sugli spiriti bollenti – un programma per attrarre eccellenze giovanili – o sul modello di sviluppo ecologico.

Ma questo entusiasmo in fondo è il tentativo di trovare un punto di equilibrio. Tra Mezzogiorno e partito liquido, D’Alema e Vendola, Fitto e Poli Bortone. Tra Ferzan Ozpetek che ambienta un film nel Salento e Gabriella Carlucci che si candida a una sindacatura garganica. Tra industria e turismo: l’esperimento Taranto che aveva rappresentato la profonda trasformazione sociale degli anni Settanta, con i contadini che diventavano operai – ne “La guerra dei cafoni” di Carlo D’Amicis, l’operaio appena assunto porta i figli in gita alla Zinzulusa – e la soluzione iperturistica della Otranto (troppo) risanata che sembra Rodi.

L’economia della transizione è fatta più o meno di queste cifre. Nel 2008, il Pil pugliese è di 71.446,1 milioni di euro (contro i 326.130 della Lombardia). La Puglia ha 4 milioni di abitanti, e un Pil procapite di 17.500 euro, un po’ più di Sicilia e Campania. La media italiana è circa 26.300. La regione più popolosa e ricca, la Lombardia ha un Pil procapite di 33.650 euro. Negli ultimi dieci anni sono cresciuti i settori del turismo e i servizi collegati, attività immobiliari, noleggio eccetera. È cresciuto il manifatturiero in automotive, aerospazio, siderurgia e chimica. È cresciuto di oltre il 30 per cento il settore delle costruzioni, mentre è in flessione l’agricoltura soprattutto nell’ultimo anno: in calo il numero degli addetti, che invece sono stabili nella pesca.

In generale sui luoghi c’è una specie di pressione antropologica, ci sono più negozi, ristoranti, più traffico, la vita non è più semplice, e il paesaggio è stato contaminato, dalle zone industriali fino alle insegne dei negozi.

I valori immobiliari si sono alzati molto, fino all’anno scorso. Adesso le cose vanno meno bene, perché all’inizio il boom turistico era determinato dai prezzi buoni. Ora sono saliti troppo e c’è bisogno di ripristinare un punto di equilibrio. Le presenze turistiche comunque continuano a crescere, soprattutto nel Gargano e nel Salento. Sta migliorando il settore vitivinicolo. Crescono i produttori locali e arrivano i produttori da fuori. Aziende agricole sono state comprate dagli Antinori a San Pietro Vernotico (Brindisi), dagli Zonin a Oria, sempre in provincia di Brindisi, i veronesi Pasqua hanno comprato vicino a Manduria (Taranto) e i piemontesi Giordano a Torricella (sempre Taranto). Nel vino gli affari sono andati bene per tutti gli anni 2000, adesso c’è una leggera frenata congiunturale, ma c’è vino di qualità: Cantéle, Castello Monaci, Tormaresca, Vetrere, Castel di Salve.

I vecchi sistemi locali del lavoro vanno così così. Il calzaturiero a Barletta, i divani di Santeramo, Gravina e Altamura sotto la dominazione dei Natuzzi, il calzaturiero del Salento, i capi spalla di Martina Franca, ci sono delle difficoltà, c’è una ristrutturazione selettiva.
Gli scrittori

C’è un boom di scrittori. Vuol dire alcune cose. Ecco quello che si raccoglie conversando in giro. La prima: è una regione ricca, se non lo fosse si scriverebbe meno. La seconda è che è una regione che sta al crocevia tra modernità e arcaismo e dunque produce letteratura (questo lo dicono De Amicis e Desiati e anche Carofiglio).

A parte Raffaele Nigro, Giancarlo De Cataldo, Vito Bruno e Gianrico Carofiglio (del quale più avanti), di base la nuova onda è generazionale: Annalucia Lomunno (Castellaneta), Pulsatilla (Foggia), Nicola Lagioia (Bari), Carlo D’Amicis (Sava), Alessandro Leogrande (metà di Taranto, metà di Goia del Colle), Cosimo Argentina (Taranto), Livio Romano (Nardò), Rossano Astremo (Grottaglie).

Poi c’è il caso Martina Franca. Dalla stesso liceo, il classico Tito Livio, vengono Mario Desiati (autore de “Il paese delle spose infelici”, Mondadori 2008), Giorgia Lepore (“L’abitudine al sangue”, Fazi 2009), Donato Carrisi (“Il Suggeritore, Longanesi”, 2009, premio Bancarella), il poeta Michelangelo Zizzi (“Del sangue occidentale”, Lietocollelibri, 2005) e Giancarlo Liviano D’Arcangelo (“Andai, dentro la notte illuminata”, Pequod, 2007), il quale adesso sta scrivendo un romanzone a base famigliare, ispirato alla storia dei Cassano, orginariamente commercianti che hanno puntato sulle produzioni cinesi e adesso sono una forza economica nella città ch’era stata dei confezionisti.

La consistenza numerica di questo gruppo di scrittori è cresciuta assieme all’interesse nei confronti della Puglia. Alessandro Leogrande ha una formazione di scritttua realista. Ha scritto “Uomini e caporali”, reportage sul caporalato in Capitanata (che smonta la visione della Puglia buona e integrazionista). Racconta che quando scrisse un libro su Giancarlo Cito nel 1999, c’erano solo un paio di libri su Taranto, negli ultimi anni ne sono usciti almeno una dozzina. Del resto forse è vero che un po’ è una regione laboratorio: Desiati osserva che è stata la prima regione a vivere il fenomeno degli extracomunitari, la prima che ha visto la politica tv (sempre Cito) e la spazzatura che invadeva una città (sempre Taranto).

Lagioia parla di Bari negli anni Ottanta, Desiati di una Murgia dalle sfumature magiche, Argentina della Taranto dietro viale Magna Grecia, D’Amicis di uno spazio compreso tra Torre Ovo e Torre Columena sulla costa jonica contaminata dal turismo delle rimesse – il turismo di ritorno dell’immigrazione alla Germania e alla Svizzera – in un (molto bello) “La guerra dei Cafoni”. Che cosa unisce questa letteratura? Scrivono quasi tutti in prima persona, molti di calcio. Scrivono di base romanzi di formazione, con una predilezione per l’adolescenza mitica. Quasi tutti simpatizzano per Vendola e quasi nessuno di loro ha mai letto Maria Corti. Molti vivono fuori, dunque sono condizionati dalla mancanza come questione poetica.

Non potevi ambientarlo in Puglia?

Curiosamente quelli che vivono in Puglia sono meno identitari. Giorgia Lepore, archeologa medievista, ha scritto un romanzone storico, molto appassionante (si legge in due notti). Adesso sta scrivendo un noir. Spiega che non parla di Puglia, «perché la mia appartenenza al territorio si misura dal fatto che ci vivo. Mi accorgo però che la pugliesità rischia di diventare una gabbia. Mi è successo che tre o quattro persone del mondo editoriale mi abbiano chiesto perché non avessi scelto un soggetto legato ai posti dove vivo. Uno, a cui il mio libro era piaciuto, mi ha detto, va bene il Medioevo, ma non potevi ambientarlo in Puglia?».
Né qui né altrove

Qualcosa di simile, vale per Gianrico Carofiglio. Magistrato, ex pm («bravo investigatore», dice di sé). Scrittore di successo, al momento primo in classifica con “Le perfezioni provvisorie” (Sellerio), oltre due milioni e mezzo di copie vendute in tutto il mondo e un personaggio, l’avvocato Guerrieri, che è un avvocato come lo vorrebbero i magistrati. Senatore della Repubblica per meriti letterari in un certo senso, giacché Walter Veltroni lo candidò in quanto scrittore e non in quanto pm. Carofiglio non è uno scrittore identitario. Guerrieri agisce a Bari, ma è una Bari poco caratterizzata, è una città metropolitana, in cui la pugliesità compare di sfuggita. Del resto non crede nella Puglia: «Esiste un’identità barese o salentina, non pugliese. Molto più dell’identità mi interessa lo spaesamento».

In realtà anche lui ha dato il suo contributo alla narrazione collettiva dei luoghi con un libro di ricordi intitolato “Né qui, né altrove” (Laterza). È la storia di una notte d’inverno in cui tre vecchi compagni di università, uno dei quali vive in America, si rincontrano e se ne vanno in giro per Bari. Non è più quella degli anni Ottanta, è una città movidista, traffico notturno, macchine in fila, locali affollati, centro storico risanato, bar, baretti, la solita pietra a vista. Siccome Carofiglio è uno scrittore molto tecnico, sa come evitare le trappole sentimentali della narrazione in prima persona e la malinconia programmatica.

Il passato non è perfetto e il presente nemmeno. Non troverete, forse, il formicolio pulsante della baresità che è una caratteristica immanente nel quartiere murattiano, ma nemmeno luoghi comuni sul Mezzogiorno & le sue contraddizioni. Bari è raccontata così com’è: una città di 320.000 abitanti troppo grande per essere solo provincia e troppo piccola per essere una metropoli. La D’Addario non c’è, ma si immagina; c’è il Petruzzelli, i nomi delle strade murattiane – le vie Sparano, Putignani o Abate Gimma – il circolo della Vela (che in questi giorni è diviso da una querelle tra i soci su come sfruttare al meglio le due sedi, quella nuova al porto o quella vecchia sotto il teatro Margherita tra il borgo e la città vecchia, se debbano essere aperte entrambe oppure osservare una stagionalità) non è citato, ma si sente un’eco della danarosità come valore: del resto per i pugliesi, Bari è sempre stata la città dei soldi.

In generale Carofiglio ritiene che oggi la Puglia sia il luogo più interessante d’Italia. Dice che c’è contemporaneamente tanta roba, letteratura, cinema, politica (e che quando parliamo di Vendola riassumiamo tutte queste cose). Dice pure che non ha importanza se queste cose riflettano la realtà, o se sia sufficiente che esistano. Dice che non gli interessa applicare categorie schematiche. La conversazione con Carofiglio è spiccia, lui è brusco, puntuto, con una specie di autoindulgenza per le spigolosità che non vuole limare (come ammette in una doppia intervista – lui e la sua amica Geppi Cucciari – a Maria Grazia Ligato di Io Donna della scorsa settimana). Neppure lui ha letto la Corti, ma ha in programma di farlo.
Ninfe callipigie

Fino agli anni Settanta Taranto aveva un fascino quasi metropolitano. Era contemporaneamente agraria, nautica, militare e industriale. Il circolo di marina era un’istituzione, il siderurgico la modernità, i cantieri navali la tradizione. Oggi non c’è più la Sem (storico bar della città), il bellissimo liceo Archita è abbandonato, hanno ripittato e messo a nuovo il palazzetto d’angolo tra via d’Aquino e via Margherita. Quel che resta è lo skyline della città vista dal lato del Ponte di Punta Penna che attraversa il Mar Piccolo. La città vecchia, il profilo della Bestat e le navi da guerra in banchina cacciatorpediniere.

Oggi l’Ilva non è più un simbolo di modernità, ma dell’incubo inquinamento. Vito Bruno, che ha raccontato la Taranto di oggi in “Il ragazzo che credeva in Dio” (Fazi, 2009) dice che «la legge antidiossina è la cosa da cui bisogna ripartire». «Anche se – nota Federico Pirro professore di Storia dell’industria all’Università di Bari e componente del centro studi confindustriale pugliese – dal 1995 al 2009 l’Ilva ha speso 4 miliardi di euro totalmente autofinanziati per ammodernare gli impienti, 900 dei quali destinati all’ambientalizzazione. Ha azzerato gli incidenti sul lavoro e negli ultimi dieci anni ha assunto quasi 8.000 giovani. L’età media dei dipendenti è 33 anni». Donato Salinari è l’unico consigliere regionale dell’opposizione pidiellina ad aver votato a favore della legge antidiossina. «È l’unico modo per ripartire – dice – se davvero vogliamo pensare a un’economia fondata su turismo e agricoltura». Il modello Taranto è passato. L’idea di Vendola è più o meno questa: «Energia rinnovabile, siamo i primi per megawatt prodotti nell’eolico e fotovoltaico; ridimensionamento dell’industria pesante senza litigare con Taranto (dove gli ambientalisti vogliono il referendum), più turismo (ma senza diventare una grande pro-loco), più agricoltura e industria moderna non invasiva», spiega Pirro.

Il prezzo di questa ecologica modernità è l’invasione di pale eoliche e la sottrazione di aree da coltivare prestate al solare. Gli ambientalisti sono contro la diffusione dell’eolico e del fotovoltaico selvaggio («una contraddizione in seno al popolo», osserva Pirro). Che si potrebbe fare per uno sviluppo equilibrato e moderno? Pirro dice: «Attrazione d’investimenti, innanzitutto. Serve il rigassificatore a Brindisi, sarebbe un investimento strategico e consentirebbe anche la nascita di una filiera nell’industria del freddo. Poi bisogna rafforzare le aziende leader integrandole con i sub-fornitori locali, servendosi anche dell’aiuto delle istituzioni. Il turismo, infine, deve fare un salto di qualità, dobbiamo promuovere le aggregazioni, favorire i charter e la creazione di consorzi che vendano ricettività aggregata».

Poi c’è il resto, le pre-condizioni di uno sviluppo intelligente. Per esempio, c’è un programma per la costruzione dei porti turistici. Ma la costa vista dal mare è in pessime condizioni, deturpata dall’abusivismo. Prima sarebbe indispensabile riqualificare il paesaggio, ma nessuno sa come. Dopo quarant’anni di anni Sessanta, di anni Settanta, di anni Ottanta, di anni Novanta, bisognerebbe riqualificare le periferie, ma anche in questo caso nessuno sa come se non richiamandosi a una generica collaborazione pubblico-privato. Si vedrà. Bisognerebbe riqualificare innanzitutto le classi dirigenti, ma quello è ancora più difficile. «Manca completamente una classe dirigente borghese», dice Bruno. «C’è una classe dirigente imprenditoriale in larga misura autoreferenziale, ma ci sono anche degli elementi di novità, soprattutto nell’apertura internazionale», dice Giovanni Ferri, direttore del dipartimento economia dell’Università di Bari. «Va compiuto uno sforzo – ammette Pirro – per migliorare ciò che noi stessi abbiamo creato e per qualificare una nuova classe dirigente capace di governare i cambiamenti».

Si rimane in attesa di classi dirigenti che cancellino gli scempi delle precedenti, in cui si distinsero alcune centinaia di geometri e ingegneri comunali democristiani e comunisti. Giuse Dimitri – ritratto in un libro di Annamaria Leccese, pubblicato da Barbieri Selvaggi – tornò a casa a Manduria negli anni Settanta per occuparsi dell’azienda agricola della sua famiglia (fu poi ucciso da un balordo una notte che rientrava a casa molto tardi). Le sue tempere in fondo alludevano alla schizofrenica e sistematica insistenza della distruzione dei luoghi: dipingeva delle donne discinte, un po’ culone – una delle quali sua antenata, cui attribuiva vita spregiudicata e puttanesca – collocate in mezzo a una fauna allegorica in stile vagamente floreale, secessionista, o similia. La didascalia diceva: «Ninfa callipigia e bestiaccia morotea in banale contesto ecologico».

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