di Giacomo Annibaldis
da La Gazzetta del Mezzogiorno del 7 dicembre 2010
La continuità è confermata dalla mise del giustiziere: un giovane dai capelli neri che brandisce l’elsa della spada per decollare il santo Battista. Il boia indossa la camiciola bianca aperta e i calzoncini marroni che sono gli stessi che portano i varii David con la testa di Golia dipinti dal Caravaggio. Anche il suo volto, ora solcato da una ruga profonda, sembra lo stesso del personaggio caravaggesco, seppure un po’ invecchiato e adeguato al ruolo negativo. È lui il protagonista della grande tela ritrovata a Bari, nel convento di Santa Fara, che raffigura il martirio di san Giovanni Battista (o per alcuni quello di san Paolo): una tela ragguardevole che ha fatto pensare subito all’arte del Merisi per quel «luminismo» evidente, con i due protagonisti investiti dalla tenebre e dalla luce. Un recente restauro ha fatto emergere la sigla dell’autore: la traccia di una V e di una A sovrapposti, firma di Andrea Vaccaro, pittore napoletano i cui inizi sono sulla scia della nuova maniera, quella imposta da Caravaggio nel primo decennio del Seicento.
La bella e sorprendente tela è una delle attrazioni della mostra «Echi caravaggeschi in Puglia» inauguratasi ieri a Lecce, presso la chiesa-museo di San Francesco della Scarpa. La rassegna, curata da Antonio Cassiano e Fabrizio Vona (che ha visto la proficua collaborazione della Soprintendenza per i Beni storici e artistici di Puglia con il museo provinciale di Lecce «Sigismondo Castromediano»), vuol essere un omaggio al grande pittore milanese, nel quarto centenario della sua morte, avvenuta appunto a Porto Ercole (Grosseto) nel 1610. In questo anno – e anche nel prossimo – al Caravaggio sono state dedicate mostre e rassegne, iniziative e celebrazioni; nonché studi sui suoi resti corporei, nei quali sono stati coinvolti gli studiosi dell’Università di Lecce.
Ma, già prima di questa mostra, la città manierista e barocca per eccellenza aveva dedicato – sempre nell’interno di San Francesco della Scarpa – la interessante esposizione dei due quadri di San Francesco in preghiera, invitando lo spettatore a riconoscere il vero Caravaggio tra i due. La Puglia non è del tutto estranea all’attività di Michelangelo Merisi,Caravaggio sottolinea Fabrizio Vona. Il sovrintendente ricorda come fu proprio Niccolò Radulovich, signore di Polignano a Mare, a commissionare al appena giunto in Napoli una tela raffigurante la Vergine con Bambino. Il signore di Polignano, un nobile della dalmatica Ragusa, intendeva così suggellare il suo acquisto nobiliare del 1604 con opere pittoriche di rango. La tela forse non giunse mai nel feudo pugliese; alcuni ritengono che essa sia finita nel museo viennese del Kunsthistorisches, la sublime Madonna del rosario. Come non giunse mai in Puglia l’altra tela commissionata al Caravaggio da un nobile salentino, il marchese De Franchi di Taviano, che raffigura la celebrata Flagellazione conservata dapprima nella chiesa napoletana di San Domenico e ora in Capodimonte.
E tuttavia la regione non poté non subire l’influsso della nuova arte. La cui eco noi ora possiamo ammirare in questa mostra, che ci presenta – in una cronistoria di gusto e attraverso più di sessanta dipinti – la parabola ascendente del caravaggismo fin dai suoi prodromi, lo sviluppo prorompente della maniera nell’arco del Seicento, e anche l’affievolirsi e il virare verso un altro vedere, con i dipinti degli ultimi epigoni. Non manca dunque nella mostra una prima sezione con opere, sempre conservate in Puglia, che ricordano altri artisti che con Caravaggio ebbero dimestichezza: dal Cavaliere Arpino, alla cui bottega romana il Merisi si appoggiò, fino a Giovanni Baglione, il pittore che intentò contro Merisi un procedimento per diffamazione, che contribuì non poco ad esacerbarne la già inquieta personalità. Dalle chiese di Puglia e dalle collezioni private, dalle pinacoteche e dai depositi emergono tele non tutti ineccepibili per gusto, ma di certo illuminanti rispetto alla nuova poetica del dipingere, quel ricavare la realtà dalla «camera oscura» – come la definì Roberto Longhi – che Caravaggio seppe utilizzare, in un geniale gioco di luci e di tenebre.
Alcune di queste opere si rivelano delle vere scoperte. Ed ecco allora i quadri del Sellitto, che contemporaneo del Merisi, mostra già – soprattutto nella tela della Madonna delle grazie proveniente da Aliano, in Basilicata – il passaggio contemporaneo dal manierismo ornato di luce e di putti allo scavo profondo della coscienza racchiuso tutto nel ritratto del committente, nella stessa tela, dipinta prima del 1610. Un San Carlo Borromeo dello stesso Sellitto è già nell’atmosfera piena del caravaggismo tenebroso. Con il Sellitto, si mostrano i quadri del Finoglio, il pittore campano che molto operò in Puglia, nel Salento e a Conversano per gli Acquaviva d’Aragona (fino agli anni Trenta del ‘600): su questo pittore c’è poco da eccepire, e la sua assimilazione del caravaggismo è maggiormente evidente nel quadro del miracolo di Sant’Antonio con i santi Medici, in cui lo scenario è tanto plumbeo, da far risaltare le carni pallide degli ammalati. Lo Stanzione e il Ribera, Mattia Preti e Bernardino Mei, il pugliese Francesco Fracanzano e Orazio Gentileschi, il Guarino e Pacecco De Rosa, Bernardo Cavallino e l’Orbetto. . . sono testimoni esaltanti dell’entusiamo con cui l’arte italiana accolse e fece sua la lezione innovativa del Merisi. I quadri in mostra sono firmati da questi autori, non di second’ordine; ma alcuni di essi hanno ora l’occasione di essere riletti e diversamente attribuiti. Un successo stilistico che conobbe infine il «degrado»: come è naturale succeda per tutte le novità che diventano moda.
Il gusto del quadro «alla Caravaggio» si diffuse talmente tanto che anche i privati non riuscirono a concepire la raffigurazione dell’arte se non a quella «maniera». Molti delle sue tele – sotto l’urgenza di una impellente richiesta – furono reiterate, con copie che a volte gareggiano con gli originali. Lo si constatò in estate con le due opere su «San Francesco in preghiera», talmente belle ambedue, sì che risultava difficile anche l’indicazione dell’originale e della copia. Lo si può constatare ora scorrendo le tele in mostra: tra le quali non mancano quelle della Incredulità di san Tommaso, una direttamente traslitterata dal Caravaggio e l’altra invece opera forse dello Stanzione. Ma quella conquista del «luminismo» fu per sempre. Sottolinea Fabrizio Vona: anche quando il caravaggismo era morto, l’arte non poté più fare a meno di misurarsi con le ombre.
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