di Miriam Mafai
dal Venerdì di Repubblica del 26 agosto 2011
Ha ragione Luciana Viviani che fu deputata di Napoli nelle prime legislature della Repubblica, quando a conclusione di questo straordinario documentario commenta: «Il nostro è un Paese che ha bisogno di ricordare anche le cose bellissime che è stato capace di fare. Perché noi siamo un po’ contro noi stessi: ci diciamo tutto quello che facciamo di male, ma non ci diciamo quello che facciamo e abbiamo fatto di buono». Ha ragione. Pasta Nera di Alessandro Piva, presentato al festival di Venezia nella sezione Controcampo italiano, ricostruisce, con grande sobrietà e con il massimo di documentazione, a tanti anni di distanza, una delle «cose bellissime» che siamo stati capaci di fare, negli anni dell’immediato durissimo dopoguerra. Il cinema italiano ci ha raccontato, con Ladri di biciclette o Sciuscià la disperazione e la miseria nella quale eravamo precipitati allora. Questo documentario recupera, a distanza di più di sessant’anni, una storia diversa. È una storia quasi sconosciuta, fatta di generosità, capacità organizzativa e intelligenza di centinaia di militanti politiche di sinistra che si impegnarono per salvare dall’abbandono e dalla corruzione migliaia di bambini e bambine del nostro Mezzogiorno, facendoli ospitare da generose famiglie emiliane. L’iniziativa subito dopo la Liberazione venne proposta a Milano da Teresa Noce, una dirigente comunista forse memore di analoghe esperienze francesi e venne immediatamente realizzata su scala locale, anche grazie all’aiuto di Antonio Greppi sindaco socialista della città. Sarebbe rimasta una esperienza locale se, al Congresso del Pci del dicembre 1945, non fosse salito alla tribuna un delegato di Frosinone, per denunciare le disperate condizioni delle popolazioni e, in particolare, dei bambini di Cassino, la città che l’avanzata angloamericana aveva raso al suolo. Lo stesso giorno una delegazione, guidata da Teresa Noce, portava a Cassino i primi soccorsi in danaro e le prime offerte di ospitalità. E poche settimane dopo partivano, da quella zona ridotta a un cumulo di macerie, centinaia di bambini che sarebbero stati ospitati dalle famiglie dei contadini emiliani.
Fu l’incontro tra due culture diverse, due diversi modi di parlare, di mangiare, di vivere: così lo ricordano coloro che lo hanno vissuto. Alessandro Piva, con i suoi collaboratori, è andato a cercare i superstiti di quella straordinaria avventura, coloro che l’hanno organizzata e coloro che l’hanno vissuta. È andato dunque a cercare in primo luogo quei bambini e quelle bambine che per la prima volta erano saliti su un treno per andare verso un’Italia che non conoscevano, una casa pronta ad accoglierli, ma profondamente diversa da quella nella quale fino allora avevano vissuto. La sua ricerca ha preso le mosse dalla vicenda di un altro paese meridionale, San Severo di Puglia, al quale Giovanni Rinaldi, studioso della memoria orale dei braccianti aveva già dedicato un libro (I treni della felicità, Ediesse 2009, ndr). A San Severo dunque, luogo di braccianti affamati e disperati, uno sciopero ed una manifestazione non autorizzata si trasformò, il 23 marzo del 1950, in una sorta di rivolta che venne immediatamente repressa dall’arrivo dell’esercito con i carri armati. Nei giorni successivi vennero arrestate, con l’accusa di «insurrezione armata contro i poteri dello Stato» 180 persone, uomini e donne. Decine di bambini rimasero soli, abbandonati, nelle case. Ma anche per loro giunse, subito, un’offerta di ospitalità, questa volta dalle donne dell’Udi di Ancona.
Grazie al sostegno del Progetto Casa Di Vittorio, Alessandro Piva con Giovanni Rinaldi sono riusciti a trovare i protagonisti e ricostruirne le vicende. Ci sono voluti anni per trovare quei testimoni e portare a compimento la ricerca. Ma ne valeva la pena. Derna Scandali, all’epoca dirigente delle donne comuniste di Ancona per prima, propose e organizzò l’accoglienza per i figli dei braccianti, oggi racconta, con un filo di ironia: «Quando arrivarono, la prima cosa che decidemmo fu di fargli un bagno». E Americo che, tornato a San Severo non voleva più mangiare e voleva tornare ad Ancona (dove in effetti alla fine è tornato), oggi ricorda l’emozione dell’arrivo, il primo gelato. «E chi lo aveva mai mangiato un gelato? E quando mi hanno dato il cono con la panna, io gli ho detto sommigghia a’recotte. Io conoscevo la ricotta, non conoscevo il gelato». Ed Erminia che aveva sette anni quando lasciò San Severo: «Mi sembrava di essere in una favola, dentro quel treno. Vedevo tutte queste luci nel mare che rispecchiavano e io non potevo capire cos’erano, perché non avevo mai sentito che c’era il mare…». E Luigina: «Qualcuno mi aveva detto: “Andate in Alta Italia? Attenti che quando arrivate i comunisti vi trasformano in sapone”. Allora spaventata dissi “non ci vado più, non ci vado più…”. Mio fratello e mia sorella invece che erano più piccolini, dicevano: “No, andiamo andiamo col treno. Non l’abbiamo mai visto il treno”. E così partimmo». Attraverso i racconti, rari documenti filmati dell’Istituto Luce e alcune raccolte fotografiche private, riemerge una vicenda italiana fatta di solidarietà, fatica, intelligenza, una storia bellissima, di cui andare fieri, per dirla con le parole di Luciana Viviani che di quella vicenda è stata una delle protagoniste.
Di seguito il bellissimo video-racconto di Giovanni Rinaldi sulla rivolta di San Severo del 23 marzo 1950 e la canzone che il gruppo Rione Junno ha realizzato a partire da quella composta dai rivoltosi