Montesardo, la culla dell’antica Messapia
di Francesco D’Andria, dal Nuovo Quotidiano di Puglia del 13 settembre 2020
Confesso che mi aveva lasciato interdetto la domanda rivoltami, a bruciapelo, da Paolo Torsello, in occasione di una visita nella sua Montesardo: “Ma dove inizia la Messapia? Da sud o da nord?”. Mi era sembrata una domanda oziosa e un po’ provocatoria e non avevo risposto. Poi abbiamo iniziato, insieme a Raimondo Massaro, il percorso nei punti in cui ancora si conservano le tracce di un abitato importante della Messapia antica, sfuggite ancora miracolosamente al disordine urbanistico attuale, che tende a cancellare lo straordinario paesaggio del Capo di Leuca. Siamo saliti sull’acropoli, definita enfaticamente la “cima”, se non proprio la vetta, delle Serre salentine ed effettivamente, dall’alto dei suoi 184 metri di altitudine, si domina un vasto territorio, costellato di centri abitati, dal quale lo sguardo raggiunge ad est il mare, all’ingresso dell’Adriatico, e, verso occidente, si può riconoscere il blu del mare Ionio e le alture che sovrastano il Capo di Leuca. Ed ho compreso il senso di quella domanda, pensando che nel Medioevo questo era il Finis Terrae dell’Italia: così era indicato il Santuario di Santa Maria sulla punta estrema del Salento, la Vergine de finibus terrae appunto. Ma nell’Antichità questa terra costituiva il punto di inizio, quando le navi che provenivano dalla Grecia e dall’Anatolia, dirette verso l’Occidente, scorgevano le bianche scogliere di Leuca (in greco significa bianco) punto di riferimento della navigazione.
Era il secolo ottavo prima di Cristo e iniziava un capitolo nuovo nella storia della civiltà europea: il capo di Leuca era “Porta”, su ambedue i versanti costieri, quelli che guardavano a nord, verso la foce del Po, e quelli ad est, verso lo stretto di Messina ed il Golfo di Napoli. Per gli antichi tutto questo era evidente se il Padre della Storia, Erodoto, dedica un’ampia narrazione alle origini del Salento dove erano giunti naufraghi, dopo una tempesta che aveva distrutto le loro navi, i Cretesi di ritorno da una spedizione in Sicilia. Si erano stabiliti in questa parte della penisola salentina e vi avevano fondato una città con il nome di Hyrie, che il geografo Strabone, nell’età di Augusto, collega a Vereto.
Origini nobilissime, che meriterebbero una maggiore considerazione, anche perché Montesardo costituisce il centro dominante di un vasto territorio, dove di potrebbero identificare proprio la città di Hyrie di cui parlano gli antichi scrittori. La sua acropoli era cinta da mura a blocchi squadrati che, per tecnica e dimensioni, ricordano le mura di Castro, databili al IV secolo avanti Cristo. Nel terreno di risulta, dalla pulizia delle mura, Torsello aveva recuperato un frammento di cassetta in terracotta dipinta, della stessa epoca, appartenente al tetto di un sacello: sull’acropoli dunque c’erano edifici sacri.
Attualmente il luogo è inaccessibile ma, certamente, qui sorgeva l’abitato più antico già nell’età del Bronzo e la possibilità di condurre scavi archeologici permetterebbe di sciogliere tanti enigmi. Da qui partivano le strade che si diramavano in varie direzioni a raggiungere un territorio ricchissimo, verso l’approdo della marina di Novaglie ad est, verso la costa ionica e l’abitato di Vereto con il suo approdo a Torre San Gregorio, e poi in direzione sud, per raggiungere Leuca con i suoi abitati dell’età del Bronzo e il luogo di culto della Grotta Porcinara, scoperta da Cosimo Pagliara, dove poi l’Università aveva fatto gli scavi che hanno aperto nuove prospettive di ricerca nel Salento.
Tra i cimeli conservati da Torsello c’è anche una copia del volume sull’archeologia dei Messapi, il catalogo della Mostra realizzata nel 1990 presso il Museo Catromediano, che avevo lasciato per la biblioteca comunale nel 1997, con la dedica: “affinché Montesardo acquisti ‘visibilità’ nell’archeologia del Salento” e che mi ha riportato a quegli anni in cui sembrava si potesse avviare un grande progetto di valorizzazione del sito, con una collaborazione tra Università, Soprintendenza e Comune. Poi, tutto era stato bloccato dall’intervento dell’ispettore di allora, il dottor Paolo Ciongoli, il quale, aveva rivendicato, come rappresentante della burocrazia ministeriale, la sua esclusiva competenza sugli scavi (una sorta di feudale “ius primae noctis”) e aveva fatto eseguire alcuni interventi di emergenza in cantieri edili: di questo nulla è stato pubblicato, Né si è dato inizio ad un reale intervento di tutela e di valorizzazione di questo straordinario sito.
Ma non tutto è perduto. Ancora si conservano per centinaia di metri i resti delle fortificazioni che si racchiudono in un’area di più di ottanta ettari, come negli altri centri dominanti della Messapia: Ugento, Muro Leccese, Rudiae, Oria. Ci sono materiali archeologici da studiare, come il corredo da una tomba conservato presso il Museo Castromediano, e poi c’è lo straordinario paesaggio intorno alla collina dell’acropoli, ancora ben conservato sul versante orientale. Bisognerebbe metter mano a un progetto complessivo di valorizzazione, in cui convergano competenze e conoscenze da affidare come obiettivo alla nuova amministrazione regionale, se questa vedrà nell’Archeologia una risorsa per la Puglia; potrà essere anche una ripartenza, per ricostruire il paesaggio rurale devastato dalla xylella, e Montesardo potrà diventare un luogo di sperimentazione per far tornare gli ulivi nei luoghi che li avevano accolti per più di tremila anni, dal tempo in cui i cretesi di Minosse erano sbarcati da queste parti, trasformandosi, come dice Erodoto, da isolani, che abitavano Creta, in continentali, salentini e iapigi.
_____________________________________
Confesso di essermi molto emozionato a leggere questo articolo dell’illustre archeologo prof. Francesco D’Andria. Sia per la avvincente vicenda storica che racconta, in cui vengono delineati i tratti costitutivi della storia antica un territorio straordinario e ricchissimo di testimonianze archeologiche; ma soprattutto perché in quel periodo delle prime casuali scoperte, alla fine degli anni novanta del secolo scorso, mi ritrovavo a far parte – assai giovane – dell’amministrazione comunale di Alessano con la delega alla Cultura, e seguii direttamente le fasi dei primi casuali ritrovamenti (originati dalla passione di alcuni amici del luogo), del coinvolgimento degli archeologi dell’università di Lecce e della Soprintendenza e del tentativo di costruire un progetto di conoscenza e valorizzazione del sito, che, per varie ragioni (alcune sono quelle di cui parla il prof. D’Andria nell’articolo), di fatto non prese mai avvio. Ricordo ancora l’entusiasmo e la commozione degli archeologi dell’ateneo leccese quando, durante un brutale scavo per la realizzazione di una struttura sanitaria, vennero fuori una grandissima quantità di reperti – alcuni a loro dire veramente molto antichi e “preziosi” – che cercarono disperatamente di raccogliere, con le ruspe che incombevano: per me fu una sorta di iniziazione all’archeologia e alle domande – di non semplice soluzione – che questa disciplina così affascinante pone agli amministratori locali. Vissi in prima persona anche la fase dello scoramento e anche un po’ della rabbia, quando il progetto naufragò (e nessuno ci fece più nemmeno sapere nulla dei risultati degli scavi condotti dalla Soprintendenza). Una grande occasione mancata, da tanti punti di vista. L’unica piccolissima consolazione deriva dal fatto che negli anni successivi in qualche modo gli studi sul sito, grazie soprattutto alla buona volontà di pochi, sono proseguiti, con la realizzazione di una prima carta archeologica (che il Comune ha acquisito anni fa, ma che non mi sembra abbia avuto nessuna conseguenza, nemmeno sul piano della tutela del sito). Il prof. D’Andria dice oggi che non tutto è perduto e che si potrebbe riprendere quel percorso virtuoso. Noi, nonostante il disincanto dei tanti anni passati inutilmente, ci vogliamo ancora credere, anche perché il nostro territorio se lo merita.
Ps: non finiremo mai di ringraziare Raimondo Massaro e Paolo Torsello, citati nell’articolo, che caparbiamente negli anni, insieme ad altri amici dell’associazionismo culturale salentino, fra non poche difficoltà, hanno tenuta viva l’attenzione sul sito di Montesardo.