Una delle caratteristiche del fenomeno del tarantismo è che per molti secoli è stato un tema di grandissima importanza, che colpiva profondamente l’immaginario collettivo e di cui quindi si occuparono in vario modo molti eruditi di un certo livello. Praticamente, in certi contesti, era un argomento ineludibile. Per queste ragioni, soprattutto per quanto riguarda il periodo più antico del dibattito sull’argomento, dove la maggior parte – se non la totalità – delle fonti era in latino, capita ogni tanto che il sapiente lavoro degli studiosi faccia venir fuori qualche novità.
Recentemente ne è venuta fuori un’altra, per varie ragioni di notevole interesse, all’interno dell’epistolario di Elisio Calenzio, importante umanista nativo di Fratte (l’attuale Ausonia, nel basso Lazio) e attivo presso la corte napoletana aragonese nella seconda metà del ‘400, che fra le altre cose fu precettore di Federico d’Aragona, secondogenito maschio del re Ferrante. Nel 1465 Federico venne inviato dal padre a rappresentare la Corona aragonese a Taranto, città che era stata fedele ai grandi avversari Del Balzo-Orsini, prima della morte improvvisa e oscura, alla fine del 1463, di Giovanni Antonio, l’ultimo esponente della famiglia che di fatto aveva controllato una parte significativa del regno in maniera del tutto autonoma. Il re Ferrante mandava dunque suo figlio, che allora aveva 13 anni, nella città ionica a dimostrare che ormai l’autorità regia era completamente ristabilita. Federico risiedette nelle terre di Puglia fino al 1487, in un periodo decisamente turbolento(1).
Elisio Calenzio, nominato precettore di Federico secondo le buona regole dell’età dell’Umanesimo e del Rinascimento, si trovò a vivere a Taranto e dintorni per molto anni, e probabilmente lì venne a contatto con il fenomeno del tarantismo, che sappiamo da diverse fonti essere molto presente già in quel periodo, e di cui gli umanisti napoletani discutevano diffusamente, come dimostra il celebre passo che al tema dedicò il più importante di loro, Giovanni Pontano(2). E quindi forse il sorprendente brano che troviamo nel suo epistolario, scritto negli anni ’70 del ‘400 e da poco pubblicato in edizione critica (3), è frutto di una osservazione diretta, come farebbero anche supporre i succosi dettagli che contiene(4).
Nella lettera in questione, rivolta al suo amico Furiano, troviamo, come in Pontano, il rapporto fra i pugliesi e il tarantismo:
I Pugliesi, Furiano, hanno tarantole così velenose che difficilmente si può credere in quante diverse specie si dividono o quanto differiscono i modi di curarsi dai veleni. Dicono che alcuni chiedono di essere sepolti vivi, altri di essere trascinati per i piedi per la città, altri allo stesso modo per mare, perché altrimenti morirebbero. C’è chi gradisce barche o battelli con canti e musica, c’è chi cerca sesso, chi lo rifiuta, chi mangia di continuo, chi fa qualcos’altro di ignobile. La maggior parte di loro invero si è abituata a saltare al sole durante l’estate infuocata e a bere vino, non diluito con l’acqua, perché credono che il veleno si sciolga nel sudore e svanisca; altri cercano vesti verdi, altri rosse, altri proprio nessuna; altri ascoltano molto volentieri la zampogna e il sistro e credono veramente che quel suono li possa guarire.
“Questa follia”, aggiunge Calenzio incredulo,
si è impossessata dei Pugliesi al punto da credere che si debba curare col vino e la zampogna anche chi è ammalato di una qualunque febbre, che si debba saltare al sole, non dormire per niente per espellere il veleno, per cui molti, fiaccati dal vino, dalla fatica, dal sonno, sono morti prima che il veleno si dissolvesse.
“Noi” – conclude l’umanista con una punta di sarcasmo ,
“da parte nostra, stupiti dalla singolarità della cosa, ridiamo insieme di essa e della follia degli uomini. Vivi.”
Si tratta dunque di una testimonianza vivacissima e di grande rilevanza, che è stata, a quanto ne so, del tutto ignorata da coloro che si sono occupati di tarantismo fino ad ora. Ci conferma la varietà delle interpretazioni del fenomeno, ma anche forse la “centralità” di Taranto, che nelle fonti antiche, anche per l’assonanza con il nome del ragno, risulta essere con il suo territorio quasi la “capitale” del tarantismo.
* Ho appreso per la prima volta dell’esistenza di questo passo di Efisio Calenzio da Paola Caruso, che lo presentò il 30 maggio 2019 presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’università di Napoli, in un convegno sul tema Melancholia – Insania – Superstitiones. Il mondo parallelo dalla Classicità all’Umanesimo, Nel corso del convegno, organizzato da Antonietta Iacono, docente di letteratura latina medievale e umanistica presso l’ateneo partenopeo, la professoressa Caruso intervenne con una relazione dal titolo I capricci del principe e il tarantolismo: la “paideia” di Elisio Calenzio , in una sessione in cui io invece presentai un intervento sul tema Il tarantismo. Cura dell’anima e musica nella tradizione popolare.
(1) A parte le sempre incombenti ribellioni dei Baroni, come è noto la Puglia dovette subire nel 1480 anche l’attacco dell’armata turca che occupò Otranto per oltre un anno, in quello che probabilmente fu un vero e proprio tentativo di invasione del Regno e dell’Italia tutta, fermatasi di fatto solo per la morte improvvisa del sultano Maometto II. Su questo episodio consiglio lo splendido libro di Vito Bianchi Otranto 1480. Il sultano, la strage, la conquista edito nel 2016 da Laterza.
(2) Per approfondimenti si può leggere questo mio articolo: http://lnx.vincenzosantoro.it/2018/12/14/giovanni-pontano-la-taranta/ ).
(3) Efisio Calenzio, Epistolae ad Hiaracum, a cura di Michele Mongelli, Edizioni di Pagina, Bari, 2020, p. 221. A questo prezioso volume si rimanda per approfondimenti.
(4) Se così fosse, sarebbe uno dei primissimi casi (insieme a quello scritto da un altro erudito napoletano dell’epoca, Alessandro D’Alessandro)