Morsi melodici e corpi in azione: orizzonti simbolici ed echi mediterranei, fra tarantismo e neo-tarantismo
Napoli, Istituto Italiano di Studi Filosofici, mercoledì 8 dicembre 2023
Per gli amici interessati a questi temi, riporto la registrazione di un seminario tenuto qualche giorno fa nella cornice prestigiosa dell’Istituto Italiano di Studi Filosofici di Napoli, dedicato alla eredità degli studi demartiniani sul rito del tarantismo (1), a cui hanno partecipato gli antropologi Laura Faranda e Antonio Fanelli, entrambi docenti presso l’Università La Sapienza di Roma.
In particolare fra i tanti spunti di grande interesse in entrambe le relazioni, vorrei segnalare alcune considerazioni di Fanelli (che ringrazio per aver citato anche i miei modesti studi), in particolare nella seconda parte dell’intervento e nel dibattito, quando ha analizzato – in maniera originale e con ampiezza di vedute – i rapporti fra il rito “storico” e le rielaborazioni contemporanee, in particolare salentine. Riprendo a titolo di esempio un passaggio a mio avviso molto significativo: “noi dobbiamo non solo cominciare a fare i conti con la storia del folklore, delle culture popolari, nell’interazione con lo Stato, con la scienza, con la medicina, con il potere, ma dobbiamo fare una storia di questi fenomeni in interazione con il mercato e i consumi culturali. È questo il grande scandalo: questi oggetti non sono stati studiati, e non ci sono oggi strumenti adatti a capire questa divaricazione e complessità del fenomeno, perché riguardavano forme musicali oggetto di disprezzo e non di interesse da parte degli studiosi”.
Di grande rilievo anche il prezioso intervento di Laura Faranda, che, sempre in un confronto con gli spunti offerti dalle ricerche di de Martino (e con le sue intuizioni “mediterranee”), ha presentato un suo recente studio su un culto di “possessione” femminile avente a che fare con musica e danza, ancora oggi molto seguito in Tunisia, legato a una “santa” islamica (con immagini “brevi ma intensissime”), che testimonia quanto “il dio che danza” in varie forme sia vivo e lotti insieme a noi.
Su questi due preziosi contributi tanto si potrebbe dire. Qui mi permetto solo di osservare, anche rispetto ai temi emersi nella relazione della professoressa Faranda, che nelle analisi comparative sarebbe estremamente utile non soffermarsi solo sul contesto “etnografico” descritto nella Terra del rimorso (cioè solo sul Salento leccese dell’immediato dopoguerra), ma esaminare anche compiutamente sia le altre “forme territoriali” del fenomeno, su cui ormai abbiamo studi molto approfonditi, sia la ricchissima letteratura storica, che negli ultimi anni si è considerevolmente ampliata rispetto alla già grandiosa ricostruzione demartiniana, restituendo in particolare al rito una maggiore complessità storico-geografica(2). Così facendo se ne ricaverebbero spunti molto interessanti, a partire dal fatto che nelle fonti storiche i casi di “non posseduti” che accompagnano i tarantati nel balli certo non mancano(3) e che l’aspetto così “cupo” e “negativo” del rito che ritroviamo nel capolavoro demartiniano (questione ulteriormente amplificata dalle immagini in b/n del video La taranta di Gianfranco Mingozzi con l’immaginifico commento di Salvatore Quasimodo) va inserito in una fluidità del fenomeno che nel corso della sua storia e nelle sue multiformi declinazioni territoriali ha assunto anche significati molto diversi(4).
L’intero seminario si può visualizzare a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=j3xF4YpC0H4 . Suggerisco a tutti di arrivare agli ultimi minuti: la parte finale del dibattito forse è quella dove emergono gli spunti più stimolanti
(1) All’interno di una più ampia rassegna sul tema, dal titolo Il rimorso. Fra Claude Lévi-Strauss ed Ernesto de Martino
(2) A partire dal fatto che, come dovrebbe essere ormai chiaro, l’innesto del culto paolino nel rito, così determinante nell’analisi e direi nella interpretazione demartiniana, si verifica solo nell’area del leccese e soltanto a partire dal ‘700, quindi è un aspetto che non può essere generalizzato e considerato un fattore “strutturale” del tarantismo.
(3) Mi permetto di segnalare a questo proposito diverse fonti relativa alla Puglia settentrionale riportate nel mio Il tarantismo mediterraneo. Una cartografia culturale (pp. 69-70), fra cui il lucerino Ludovico Valletta (De phalangio apulo, 1706) che nello scenario del rito riporta la presenza di “giovinette abbigliate in sontuosi abiti nuziali col compito di danzare con i tarantati, cantando e suonando festivamente insieme ad essi la stessa melodia nel corso della danza”. Uno scenario che si ritrova perfettamente nel celebre disegno di Willem Schellinks, un olandese che visitò Napoli nella primavera del 1664 , che rappresenta una mirabile scena con La danza di una donna punta da una tarantola (fonte riemersa di recente e che de Martino non poterono analizzare), probabilmente osservata a Capodimonte, in cui una giovinetta tarantata balla con in bocca una spada adorna di nastri colorati, accompagnata da un’altra donna che regge tra le mani un panno rosso. Sostengono il ballo una suonatrice di tamburello, un suonatore di chitarra battente ed un violinista, mentre gli addobbi rituali ricorrenti in molte altre fonti (lo specchio, la spada, il rametto fiorito) completano la scena.
(4) Rispetto alle considerazioni di Laura Faranda emerse in particolare nell’ultima parte della discussione, mi pare importante ad esempio richiamare un confronto con le analisi di Clara Gallini sull’argia, le cui pratiche – chiamate emblematicamente “feste di guarigione” – vengono confrontate per esempio con i sistemi culturali dei carnevali sardi.