“Su etnicu ‘ncazzatu” anch’io: il Salento e le ambiguitá del ‘neotarantismo’

di Luca Ferrari
da lucaferrari.net

Torno dal Salento dove sono stato venti giorni per il secondo anno consecutivo.
Terra splendida, rossa, gli ulivi sui lati delle strade che lo attraversano, i “pajari” e i muretti a secco che segnano le proprietà. Un mare unico, cristallino, un paesaggio esclusivo, ricco di contrasti laceranti, estremi, i monumenti del Barocco che tendono agguati a ogni curva.

Per il grande pubblico di appassionati di musica, soprattutto, da qualche anno il Salento è il palco su cui si suona la “pizzica tarantata”, nei suoi numerosi piccoli grandi festival che riempiono le città di turisti. Galatina, Cutrofiano, Nardò, Torrepaduli, Copertino, Sternatia, Zollino, Martano hanno offerto tutte le sere sagre e concerti, spesso contemporaneamente. Nelle prime tre settimane d’agosto, giusto per dare un’idea della situazione, hanno suonato tra gli altri: Coribanti, Mediterranea Ensemble, Figli di Rocco, Pino Zimba, Alla Bua, Mascarimirì, Lu Rusciu Nosciu, Schiattacore, Lu Cannitu, Xanti Yaca, Meramenhir, Anacaton, Asteria, Sud Est, Arakne Mediterranea, Arsura, Abash, Kalashima, Ariacorte, Nui Nisciunu, Canzoniere Grecanico Salentino, Aramirè, Ghetonia, Tamburellisti di Torrepaduli, Avleddha, I Calanti.

Da qualche anno, inoltre, i riflettori sono puntati sul festival miliardario de La Notte della Taranta, quest’anno ben dodici date articolate nei comuni della Grecia Salentina, area in cui è ancora parzialmente diffuso l’uso del “griko”: festival che è stato definito da più parti “il più importante organizzato oggi in Europa” e che nella serata conclusiva di Melpignano (21 agosto) pare abbia radunato oltre 70.000 persone.

Un’iperbole, probabilmente, per sostenere lo sforzo delle amministrazioni locali e della Regione teso a fare del Salento “la California italiana” (così titolava qualche mese fà l’inserto di “La Repubblica” “Viaggi”…), ma tanto più irritante e avvilente se considerata la qualità modesta dei gruppi proposti nelle serate introduttive e più complessivamente la risibilità del “discorso” intorno al fenomeno del cosiddetto “neotarantismo”. Fenomeno che in questi ultimi anni ha alimentato una vera e propria industria culturale (libri, seminari, convegni, ricerche…), frequentemente sotto l’egida interessata delle stesse istituzioni accademiche e dei cosiddetti “esperti”.

Quello del Festival, osservato con il minimo disincanto, sembra piuttosto un disperato tentativo di rappresentare come progetto di rinascita del tradizionale “geneticamente modificato” dotato di una sua legittimità quella che in realtà appare sempre più e soltanto una moda socio-culturale (?) attira-turisti – come canta Roberto Raheli degli Aramirè (pressoché l’unico gruppo salentino a proporsi con un progetto realmente alternativo) in “Mazzate pesanti”, brano che da il titolo all’ultimo, bellissimo disco uscito proprio in questi giorni:

“Giù nel Salento abbiamo il sole e il mare bello
e con il tamburello la gente balla e suona
però questa “musica etnica” è diventata come una cartolina
di un Salento finto di Notti e di Tarante…
Sono “etnico” ma incazzato perché il tamburello
non deve diventare come un anello al naso
Battete le mani agli amministratori
che inventano i festival e le cose sembrano andar bene…

E allora dico: mazzate pesanti con i suoni e con i canti
mazzate pesanti per tutti e senza santi
Su etnicu ‘ncazzatu e una cosa devo dirla:
se non parliamo ora dimmi quando dobbiamo parlare…

(…)
Gli alberghi sulle spiagge, le notti e le tarante
sono la mercificazione di un Salento di facciata
se il Salento oggi è di moda questa moda ci consuma
roviniamo tutto adesso e dopo non ci resterà più nulla
i musicisti “etnici” si sono moltiplicati
ma se conoscono cinque brani non arrivano a sei
però ci sono i festival che richiamano gente…”

(“Mazzate pesanti”, testo e musica di R. Raheli, Ed. Aramirè 2004)

Proprio i concerti delle “notti tarantate” si sono rivelati noiosi, ripetitivi, come l’anno scorso sono stati compromessi da un’organizzazione approssimativa, generalmente in luoghi inadatti, proponendo gruppi dalle scarse abilità tecniche, dai repertori-fotocopia (l’invariabile collanina di tradizionali “Pizzicarella”, “Kali Nifta”, “Lu rusciu de lu mare”, “Fimmine fimmine”…), centrati quasi esclusivamente sulla pizzica, appunto, con l’unico, dichiarato scopo di far ballare, non importa se ignari ragazzotti “poganti” o goffi padri di famiglia in cerca di emozioni a buon mercato, e, perché no?!, di vendere l’ultimo CD prodotto, puntualmente disponibile sul banchetto vicino (il caso più imbarazzante, in particolare, quello del gruppo “folcloristico” dei Coribanti, il cui portavoce non ha perso l’occasione al termine di ogni brano di invitare il pubblico all’acquisto…).
Un ossessivo, pervasivo battere di tammorre e tamburelli. Nessuna bella voce da ricordare, insomma, scarse le forme alternative alla “pizzica” presentate (quasi nessun canto di lavoro, quasi nessun stornello…), discutibili le scelte della direzione artistica di presentare gruppi “evolutivi” etno-rock (Pantarei, Nidi d’Arac, il DJ Don Francisco…), espressioni “furbe” di un’idea di musica più prossima al “Festivalbar” che all’universo del tradizionale “rivisitato”. Ed è a dir poco paradossale, alla fine, che tornando a casa possa ricordare soltanto (oltre ai citati Aramirè e ai Ghetonia) le convincenti, appassionanti esibizioni di tre “istituzioni” della scena folk contemporanea – Daniele Sepe, Peppe Barra e E’ Zezi – per giunta tutti napoletani…

Facile azzardare una previsione, per concludere, che certo irriterà i “trombettieri” del “neotarantismo”: come già per altre mode estive (chi balla più la macarena?), anche il fenomenale successo della pizzica scemerà, una volta che la massa di turisti si sarà rivolta altrove, annoiata e irritata dall’ostinata invariabilità dell’offerta (“dopo un po’ la pizzica rompe i coglioni”, va ripetendo nelle interviste il grande Uccio Aloisi, lui che è uno dei padri riconosciuti della “pizzica”!), stremata dall’insensato aumento dei prezzi degli esercizi pubblici, dalla progressiva riduzione delle spiagge “libere”, dal traffico caotico e sregolato delle strade, dalle piccole discariche abusive di inerti sparse qua e là nell’entroterra…

Il Salento e la sua musica (quella passata straordinaria, quella presente in gran parte da inventare…) resteranno soli, delusi e depredati, più poveri anche, perché si sarà perso tempo a ripetere stoltamente facili cliché piuttosto che a progettare e praticare nuove espressioni che nascano dalla contemporaneità.

(Gadesco P.D., 23 agosto 2004)

 

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